Chi sarà mai sto Carlo Carlo – Vent’anni dopo
omaggio ad Alexandre Dumas Senior
Vivace, loquace, mobilissima, prodiga di diminutivi infantili e di risa scampanellanti, facile alle tenerezze improvvise, alle malinconie subitanee, alle rapide ire, ella portava nell’amore molto movimento, molta varietà, molti capricci. La sua qualità più amabile era la freschezza, una freschezza tenace, continua, di tutte le ore. Quando si svegliava, dopo una notte di piacere, ella era tutta fragrante e monda come se uscisse allora dal bagno.
Gabriele D’Annunzio, Il Piacere
Io, però sono la Monica Martinelli
Qui però dobbiamo prendere fiato e capirci bene…
Fin ora avete letto quello che Berto aveva annotato al rientro dalla vacanza marina.
Lui ci ha fatto conoscere questo intrigante personaggio, Carlo-Carlo, e la sua encomiabile attività, pur da morto, in quell’estate del ’53.
Ma le prodezze del fantasma amico di Berto non si sono esaurite in quell’agosto. Tanto che oggi l’hanno promosso e gli hanno dato un ufficio tutto per lui. D’altra parte, sempre detto da lui, andrà in pensione dopo quattrocento anni di servizio da fantasma di prima categoria.
Fortunatamente Berto, di quella vacanza, ebbe la bella idea di annotare minuziosamente fatti, retro fatti e relative atmosfere.
A Carlo-Carlo, invece, il merito di essersene impossessato in camuffa, copiato e consegnatomi.
Questo per alcuni banali screzi[1] sorti fra di loro:
Berto lo aveva apostrofato con “Vecchio fantasma: filippino e segaiolo”
A cui, risentito, l’ectoplasma aveva replicato con:
«La nostra amicizia si è conclusa. Non sentirai mai più la mia arietta. Voglio proprio vedere come te la caverai. Vedrai che di figa ne tromberai sempre meno»
Un anatema terribile!
Fatto sta che Carlo-Carlo smise di comunicare con Berto. Cercò invece il modo di interagire con me.
«Sempre meglio una bella ragazza che un coglione imbecille e presuntuoso» gli scappò detto un giorno che era in vena di confidenze.
Io, però sono la Monica. Sì, la Monica Martinelli e resto con voi fra queste righe per aggiornarvi su questa inverosimile storia con un fantasma in carne e ossa. Ammesso che si possa dire.
È solo per te. Tienilo segreto.
Berto, dopo avermi liberato dalla schiavitù del coperchino mi aveva raccontato tutto sul suo rapporto con Carlo-Carlo: che non era il nome del suo cazzo, ma ‘uno spettro’, come si dice nella lingua del Leopardi e del Manzoni. (Dal latino ‘spectrum’, ‘visione, fantasma’)
La prima volta che si mise a mia disposizione fu la sera che ebbi la sorpresa di trovare sul mio letto la fotocopia del quaderno di Berto con tutta la più recente storia del mio imene. Assieme c’era anche un biglietto: “È solo per te. Tienilo segreto.”
Berto era tornato a Bologna e io, la Monica – tanto per essere chiara – in mancanza d’altro mi trastullavo la gnocca con la coda di un gattino di pannolenci. Dopo che ebbi raggiunto l’orgasmo, Carlo-Carlo mi avvolse con la sua arietta calda. Si presentò e mi disse anche che con Berto non voleva più parlare perché avevano litigato.
Già poche settimane dopo
Berto al rientro dalle ferie era stato trasferito momentaneamente a dirigere la filiale di Zenerigolo[2]. Era un incarico a cui lui teneva assai. Lavorava oltre l’orario ed essendo un’agenzia di punta, alla mattina doveva essere in grado di dare il massimo. Per cui dormiva in loco.
Io, ancora al centro della passione e soprattutto perché ad essere guzzata spesso ci avevo preso gusto, soffrivo assai il dover aspettare la domenica per un po’ di sollievo che pensavo mi spettasse di diritto. Anche perché stava diventando una rarità l’intensità e la dedizione che avevo ricevuto in vacanza solo poche settimane prima.
Non credo che due guzzate e una sborrata nel culo sia chiedere la luna!
Ma forse ci fu l’intromissione della Cassa di Risparmio. E si sa che quando ci sono di mezzo i poteri forti può accadere tutto e di più.
E forse aver potuto leggere il diario di Berto peggiorò il mio malumore[3].
Il confronto fra quel recente passato e la consuetudine che si era instaurata al mio rientro in città mi fece capire che le mie speranze erano mera illusione. E che non avrei mai potuto aspirare allo stile di vita di Jasmine. Eroina delle mie letture.
Ero arrivata al punto di sbattermene del moroso e cercare l’ardore di uscire la sera per conto mio ed infilarmi in uno di quei dancing che erano nei dintorni di casa. Nella mia disperata voglia di erotismo ero convinta che in quei locali avrei trovato qualche discreto ‘sciroppo’ per far tacere la figa e il suo grilletto.
Così avrei trovato il modo di ricevere alla domenica il moroso, calma e sorridente.
In quei giorni Berto si era lamentato del mio nervosismo e anche che nel chiavare pensassi solo al mio godimento e a sfinirlo con più richieste di venir soddisfatta.
Prima di combinare qualche casino Carlo-Carlo mi convinse a lasciar stare la ricerca di ‘sciroppini’ in carne e ossa:
«Prova a chiedere a tua madre quanto ci sia da brigare per trovare un buon uccello senza rischi di sputtanamento?»
Aveva toccato la corda giusta e non potei che dargli retta e rassegnarmi.
Finii di leggere le ultime annotazioni di Berto e mi venne il magone. Era stata una gran bella vacanza e l’inizio di una storia entusiasmante ma che subito aveva mostrato difficoltà a proseguire con lo slancio iniziale. Sono sempre stata ottimista e ho sempre avuto fiducia nel giorno dopo. Ci voleva un momento di riflessione.
Una selva che ogni giorno diventava sempre più folta
Riposi il quaderno, tirai su la sottana e appoggiai la mano sul gomitolo che avevo fra le gambe. Dai pizzi dell’elegante slip che mamma mi aveva comprato dopo che le avevo detto che a Berto gliel’avevo proprio data, occhieggiavano i miei lucidi peli neri. Un ciuffo che mi accorgevo diventava ogni giorno più folto. Mi piaceva guardare questa minima selva da vicino, convinta che fosse una risorsa, come scriveva l’autore di Jasmine: “la sola garanzia per un agiato futuro”.
Vengo a trovarti
Una sera che mio padre era uscito con gli amici: piscina e busona all’Esedra[4]. E mamma era stata invitata al ristorante dal Capitano. Sicuramente sarebbero andati dalla signora Liberata all’Hotel Posta di Pianoro Vecchio: scaloppe ai funghi, Sangiovese, trombata in stanza con balcone sul Savena. Mi ero ritrovata nella solitudine della casa vuota con la prospettiva di avere ancora una settimana innanzi prima di ricevere qualche solida effusione, se tutto andava bene, dal fidanzato. Era di lunedì.
In poltrona stavo leggevo la più recente pubblicazione della saga di Jasmine. Quella storia mi stava conquistando. Dopo che avevo sfogliato ogni pagina la mano si appoggiava sul grembo e il suo calore lentamente fece salire la pressione nella parpaglia che prese a lanciare eloquenti segnali. Abbassai lo slip e freneticamente mi liberai di calze e reggicalze. Mi masturbai con la solita rabbia. Quando conclusi erano quattro le dita che mi avevano dato il godimento
Sicuramente avrei fatto un replay. Mi venne invece di sollevare il telefono e chiamare Gloria.
Era triste anche lei. Aveva appena salutato il suo Philipp che dopo due sgurate che le erano sembrate poche per tener botta fino al mese successivo.
Intanto che lei lamentava la propria solitudine io avevo ripreso a masturbarmi. Forse gli sbalzi nel tono di voce fecero intuire alla mia amica cosa stavano facendo le mie mani:
«… sì un ditalino»
«Quando hai chiamato ne avevo appena finito uno anch’io»
«Metto giù che voglio finirlo. Questo mi è partito bene»
«No. Non staccare… Voglio sentirti urlare» e io avevo appoggiato la cornetta.
«Vengo a trovarti»
Gloria abitava poco distante.
Arrivò con un soprabito leggero abbottonato fino all’ultima asola. Erano già due giorni che scrosciava pioggia. Appena dentro si liberò dell’indumento fradicio. Sotto, una mise che non sarebbe passata inosservata alla Buoncostume[5].
Praticamente l’assaltai. La spinsi contro la porta e la mia mano cominciò a salire lungo le cosce verso il biondo cespuglio. Gloria è una bionda naturale. Intanto, lingua-in-bocca, le esploravo più che potevo il palato.
«Ma da quant’è che non ti chiava?»
«Che gli venisse un accidente a lui e a tutte le banche del mondo» imprecai spingendola dentro la mia stanza.
Avevamo bisogno tutte e due di sfogarci e non lasciammo spazio alle parole. Le nostre bocche, dentro e attorno alle fighe, provarono a dimostrarci che sapevano far meglio di un cazzo.
Cercammo con alcuni bicchieri di vino di placare il nostro desiderio. Non servirono ad alcunché e riprendemmo a stimolarci le villose vulve sfregandocele reciprocamente con un sonoro rituale.
«Quando ci rivediamo?
Era quasi mezzanotte. Non pioveva più. Si era fermato anche il vento. La Città era caduta in quella quiete così ben descritta dal Leopardi[6] poeta. Solo che noi non vedevamo “gli augelli far festa”.
«A metà settimana compensiamo le assenze» Un bacio da amiche e tornai nella mia solitudine.
Un amico in comodato d’uso
Che strano! Qualcuno aveva acceso la Radio Marelli[7]. Anzi, muoveva il sintonizzatore alla ricerca di una precisa stazione. Venne trovata. In onda, Carla Boni[8] cantava Jezebel[9].
Circospetta e con il cuore in gola rimisi la testa nella stanza. Tutto come pochi minuti prima: il letto mostrava i segni della nostra libidine. Bicchieri e vino che avevano attenuato sulle nostre bocche gli umori della figa. Uniche novità, la Radio Marelli accesa e una dolce brezza odorosa che soffiava da più parti.
Carlo-Carlo si presentò così «Non ho nulla da sgridarti. Ognuno faccia quello che può – cambiò poi tono per un complimento un po’ spinto – Ti ho visto tante volte godere, ma bella come mi sei sembrata stasera non mi era ancora capitato. Eri radiosa! – poi, riflettendo e a bassa voce – roba da tre pugnette – con rassegnazione – Solo potersele fare». Avevo così appreso che gli ectoplasmi non si possono masturbare.
Confesso che arrossii.
Più che ringalluzzirmi il complimento mi fece sentire vittima non di un fantasma ma di un guardone.
A questo suo difetto mi sono abituata e un po’ anche mi diverte. E forse mi eccita. Non è da tutti sopportare di diventare un film pornografico pronto ad essere proiettato ad ogni incontro affettivo ma anche adesso che da quel giorno sono passati venti anni mi piace sentire che aleggia attorno a me con il suo tiepido venticello. È diventato, a tutti gli effetti, un membro esclusivo della mia famiglia che con discrezione, se vede che serve, mi dà uno dei suoi preziosi consigli. In definitiva gli sono grata dell’amicizia anche se sluma ogni volta che tiro fuori la begonia.
La mia stanza da letto è un abbaino
Berto?
Eh, con Berto andò di lungo parecchi anni. Ognuno a casa sua ma lui sempre lì a casa mia, naturalmente quando la Banca lo lasciava libero. E questo succedeva sì e no alla domenica.
D’altra parte il suo attaccamento al lavoro era utile a una carriera che gli avrebbe assicurato un buon stipendio.
Quando andai all’università i miei con i soldi del nonno mi comprarono l’appartamento dove sto anche adesso, qui sui tetti di via Ugo Bassi, dove non ho bisogno di orologi perché la campana di Palazzo batte due volte ogni ora.
Ed è qui che, nei ritagli di tempo che mi dedicava, con Berto l’abbiamo fatto in tutti i modi e in tutti gli angoli della casa.
Non dimenticherò mai quando una notte… – la mia stanza un abbaino con un terrazzino sui coppi – … mi attaccai con le mani alla ringhiera e, mostrandogli la flippa da dietro, gli dissi mentre leggeva in poltrona Tex Willer:
«Forza chiavami… che voglio vedere che effetto mi fa Bologna con un uccello tutto dentro» e tirai su una zdarinata da brivido.
Un po’ per l’intenso orgasmo, ma soprattutto per la commozione di aver dato la gnocca innanzi al luccichio notturno della mia città, alla fine avevo versato qualche lacrima di gioia.
Io vissi così quella straordinaria esperienza: con una punta di romanticismo.
Per Berto invece tutta un’altra roba: per tutta la trombata volle che:
«Grida… Urla… Voglio che tutta Bologna sappia che Alberto Alberti sta chiavando» Per lui era importante si sapesse che lui era quel guzzatore che sapeva far godere le femmine anche sui coppi.
Due modi diversi d’intendere la vita. Non avevamo più punti in cui ci riconoscevamo entrambi.
Un peccato perché da lui ebbi sempre della buon’oca!
Cagnacce, pagherò e tassi di interesse
Dopo la laurea in Belle-Lettere avevo iniziato a scrivere qualche articolo per il Carlino.
Berto s’era fatto un discreto culo alla Cassa di Risparmio e l’avevano promosso a un grado alto. Pigliava anche una buona paga. Tanto che pensavamo di sposarci. Passavamo però sempre meno tempo assieme e quando era con me non faceva altro che parlare di cagnacce[10], pagherò e tassi di interesse. Tanti i sabati e le domeniche lui era impegnato per e con la Cassa di Risparmio.
Du maron! Insopportabile!
Cercavo così sempre nuove scuse per rinviare il matrimonio. Forse con la speranza di un evento che ci portasse tutti e due a un cambio di routine.
Per riempire le notti, molte delle quali erano divenute insonni, mi misi a scrivere storie… poi racconti… e poi romanzi.
A oggi ne ho già pubblicati sette!
Le storie che racconto sono fatti che si muovono attorno a cazzi e fighe. Convinta che siano questi gli elementi che fanno muovere il mondo. La pensa così anche Carlo-Carlo!
Gli veniva l’oca dura
Finche tenni le mie storie nel cassetto Berto non ebbe niente da dire. Anzi le piaceva se gliene leggevo certi passi. Gli veniva l’oca dura e mi prendeva o per il davanti o per il di dietro.
Era oramai divenuta un’abitudine delle poche giornate che trascorrevamo assieme. Lui guardando quanto più di sport si poteva alla TV e io che cercavo di farmi notare per avere da lui una qualche attenzione.
Tutto accadeva come fosse scritto in un copione: verso le otto avvertivo la presenza di Carlo-Carlo che mi informava:
«Fra dieci minuti smorzerà[11] l’apparecchio» e io mi infilavo nel bagno per quelle due o tre cose che si debbono fare. Lo sentivo salire la scaletta che portava alla mia stanza. Il suo passo era pesante. Non aveva più la svarzura di chi ti brama. Aveva però sempre un sorriso.
Si sedeva sul letto e partiva la domanda di rito:
«Cos’hai scritto di bello questa settimana?»
Dal cassetto tiravo fuori qualche foglio e seduta di fianco a lui leggevo. Non andavo mai oltre il terzo foglio che una sua mano ravanava già fra le tette. Andavo avanti e la mano arrivava fra le cosce:
«Ma sei senza mutande!» lo diceva ogni volta.
Non era il caso di continuare con la letteratura. Appoggiavo i fogli e gli slacciavo la sfessa. Tiravo sempre un profondo sospiro: “Meno male!”, nell’accogliere il membro irto e ben sodo. E aveva inizio la tenzone: un po’ le mani… la bocca… Poi, lasciandolo seduto calavo la begonia[12] sulla sua cappella e iniziavo la danza.
Mi scatenavo infilandomelo tutto su e cercando di stringergli forte il glande con i muscoli e le labbra della figa.
Un salto e con tempistica agilità mi facevo infine sborrare fra le tette.
Ricordavo ancora i preziosi consigli di Jasmine. Non erano aria fritta e anche ora, con i miei anni, le mie tette sono sempre invidiate da amici, amiche e fantasmi:
«Belle e dure, l’ideale per le spagnole» come non si stanca di affermare Carlo-Carlo, che approfittando della propria incorporeità chissà quante volte le palpa.
Ogni volta, era sì una banale ripetizione ma si concludeva sempre con un dignitoso sguazzino. Il solo rammarico era che tutto si fermava lì a quell’unica trombata anche un po’ aerea.
Fra me e Berto non si sbordellava più!
Berto si tirava su i calzoni, mi dava un bacio e una pacca affettuosa sulla chiappa destra[13] e:
«Vuoi che andiamo a farci una pizza qui sotto. Così vado a casa presto che domani ho una giornata pesa in ufficio»
Non ce l’ho mai fatta a rifiutare. Andavo in bagno a farmi una doccia. Poi la dovuta pisciata. Il trucco e con il sorriso ben stampato sul viso…
«Ecco, Berto, sono pronta»
La guzzata del dì di fèsta
Poi una domenica…
Di sport in televisione, chissà perché ce n’era meno del solito e Berto sembrava di buon umore. Il grugno da can mastino che portava sulla faccia da quando l’avevano promosso a direttore dell’Agenzia, quel giorno era sparito.
Addirittura con due ore di anticipo avevamo fatto la nostra rituale guzzata della domenica o del dì di fèsta. In tutta calma ci eravamo anche scambiati qualche spaciughino[14]. Così com’era l’andazzo ero convinta che avremmo fatto anche la seconda, tanto che già pensavo di essere poi io a dirgli «Vuoi che andiamo a farci una buona tagliatella da Rodrigo».
Una prospettiva che mi riempiva il cuore di gioia
Insomma, cercavo di prolungare quella beata parentesi di sensuale affetto che da tempo era sparita dal nostro stare assieme. Mi venne così la voglia di renderlo partecipe di un avvenimento che in quegli ultimi giorni mi riempiva il cuore di gioia e che avevo tenuto per me rispettosa dell’antico detto “Mai dir gatto finche non è nel sacco”.
Glielo dissi facendo la carina: dopo due ciucciotti alla cappella e sfregandogli una tetta contro la bocca «Sai Berto che sto per guadagnare un vaniżén ed baiuchèn[15] proprio adesso che si avvicinano le ferie». Così gli raccontai di aver ricevuto il contratto per la pubblicazione di dodici racconti per una elegante collana di storie piccanti e un po’ sporcaccione…
Non mi lasciò concludere il discorso che volle vedere il contratto… intanto la sua faccia si era rabbuiata… e, dopo averci dato un’occhiata, me lo stracciò innanzi agli occhi.
«Carogna d’un bastardo» e provai di fermarlo ma ricevetti un pappagno[16] che mi stese.
«Roba da rovinarmi la carriera! – si tirò su le braghe e se ne andò aggiungendo – Più troia di sua madre» E pensare che quel contratto mi aveva reso così contenta che gliel’avevo data con tanta gioia.
Faccia in maniera che lui non si agiti
Solo un’ora dopo, stavo ancora piangendo, si fece vivo Carlo-Carlo «So già tutto. Ero qui anch’io … Smadonnava come un turco nel fare le scale. Aveva un diavolo per capello. Allora io ho fatto mancare la luce alla scala e gli ho messo fra i piedi lo stuoino del piano di sotto. Ha fatto un cristo fin in fondo. Un tananâi dla madòna![17] – feci per andare alla finestra – Lascia stare, l’hanno già portato al Rizzoli»
«Al Rizzoli?»
«Sì al Rizzoli. Credo si sia rotto una scapola e fatto un taglio in testa. Tu però faresti bene a non andarlo a trovare»
«Come faccio? Siamo assieme da vent’anni ed è successo a casa mia» Chiamai un taxi.
Due ore in sala d’attesa. L’avevano subito operato. Lasciai che lo sistemassero in una stanza.
«È ancora un po’ sotto anestesia. Faccia che non si agiti» un’infermiera.
Erano in sei in quella stanza. Berto mi riconobbe subito e… «Cåulpa tô[18] buṡunâza[19] và…» Ero già al posteggio dei taxi.
Un’intrigante luce nei suoi occhi.
«Via Barberia. Quasi di fronte alla Federazione[20]» Avevo deciso di sfogare la tristezza con Gloria.
Ci mise un po’ ad aprire la porta. «A quest’ora? Cos’è successo?»
Scoppiai a piangere. Gloria mi fece entrare. Per sommi capi le raccontai la mia serata. Solo allora mi accorsi che sotto una sottoveste molto trasparente non aveva nulla.
«Eri a letto?»
«Sì, ma c’è anche Philipp e stavamo…»
«Scusa. Vado subito via. Mi sento meglio adesso che mi hai ascoltato»
«Aspetta – vidi un’intrigante luce nei suoi occhi e sparì – Vieni, Philipp vuole che tu stia con noi stanotte»
In cucina mi diede un cicchetto. Non riuscivo a togliere gli occhi dalla sua nudità velata dal sottabito. Le rotondità della mia amica le conoscevo molto bene: le avevo accarezzate e baciate tante volte, ma in quel momento mi avevano fatto dimenticare Berto e avevano acceso in me la scintilla della trasgressione. Quella trasgressione a cui da qualche tempo mi lasciavo andare con forsennato piacere… e che a Gloria, lì per lì, avrei… È che, proprio lì, di troppo c’era Philipp. Poi quella giornata non mi sembrava propizia per aggiungervi altre questioni sentimentali. Meglio andarsene e lasciare i due piccioncini alle loro effusioni.
Dalla stanza in fondo al corridoio si udì un refrain fischiettato. Gloria si avviò verso quel suono. Stette di là un attimo e tornò con un largo sorriso.
«Vieni, Philipp vuole che tu dorma nel nostro letto. Starai nel mezzo»
Philipp sotto al lenzuolo era nudo da prima. Gloria si sbarazzò dall’inutile indumento. Io mi resi pari a loro.
Fallo gallico
Non perdetti un attimo e presi in mano il priapo del bel francese. L’avrei baciato volentieri se Gloria non avesse appoggiato la fica sulla Mia bocca riuscendo allo stesso tempo a baciare il suo amante. Io davo leccate alla gnocca e intanto só la pèl, żå la pèl[21] a l’uccello che non avevo mollato. L’eccitazione cresceva. Spirò un venticello ma alcuna voce mi parlò. Comunque ero sicura che il mio fantasma era presente quale privilegiato spettatore.
Fu Gloria a prendere in pugno la situazione. Sicuramente lo meritava. Ha qualche anno più di me e sapevo che aveva vissuto più situazioni trasgressive di me che mi ero portata fino ai miei 37 anni il fidanzatino dell’adolescenza.
Gloria, con Philipp, assistente del grande Roland Leccon, aveva una relazione adulterina da più di vent’anni. Lui teneva moglie e figlio, Oltralpe.
Lei, di quella situazione aveva sofferto assai e la cosa le era rimasta sullo stomaco[22]. Poi chissà con quale balla[23], lui, era riuscito ad infinocchiarla, tanto che spesso veniva a Bologna a darle quella zdarinata[24] di cui lei non vedeva l’ora di ricevere.
Ma torniamo al baccanale che stavamo celebrando.
A Gloria non potevo dar torto se si sentiva in diritto di tracciare l’itinerario di quella improvvisata notte di sesso a tre.
«È ancora un coperchino» così aveva detto di me al suo amante. A lei avevo confidato di non aver mai tradito Berto – in vent’anni ! – Così non aveva fatto fatica a dedurne, ridendo, che quello che savo stringendo era il secondo cazzo della mia vita:
«Dopo dobbiamo fare un brindisi».
Infatti tenere anche solo stretto il Philippico augello mi eccitava fuori misura. Me lo gustavo palpandolo con dolcezza in ogni sua parte. La mia passera pulsava ed era fradicia di umori. Gloria, intanto, aveva riversato i suoi nella mia bocca. Con uno scatto mi liberai di lei per dedicarla completamente al fallo gallico.
Oltre ogni confine
Era persona ben educata Philipp. Lasciò che assaporassi sia il glande che il filone del prepuzio e che mi allargassi pure allo scroto, per poi, con gesto imperioso, staccarmi la bocca dai suoi gingilli per baciarmi con trasporto. Sospirò «Ah, mervejeus le bocchino italieno!!» Con grazia riaccompagnò la bocca sul pezzo e si lasciò andare agli artifizi della mia lingua.
Sapevo che Gloria non amava sbocchinare, me lo aveva detto lei: «… alla fine ti arriva sempre in gola quella roba viscida e tanto salata. Mentre io sono una persona tanto dolce»
Trovai invece che il cazzo di Philipp odorava e aveva un sapore esotico. Un mix di spezie che portò la mia foga al parossismo. Gli riservai un trattamento tale che l’eiaculazione fu un getto rovente e il piacere lo espresse con un prolungato urlo che Tarzan[25], sicuramente, glielo avrebbe invidiato. In quel succhione avevo cercato di trasferire quanto non potevo certo dichiarare in presenza della sua amante: la ricerca di una persona verso cui indirizzare i miei sentimenti.
Qui notai anche la differenza fra un uomo abituato al savoir-fèr dell’alta società parigina con un comune mandrillo nostrano: Berto, si sarebbe poi accasciato esausto e di lì a poco si sarebbe udito il suo ronfare. Philipp ebbe un comportamento di grande eleganza: attese paziente che riversassi quanto aveva ricevuto la mia gola dal di lui fallo sulla mia epidermide per aiutarmi a spalmarlo sulle tette… sul ventre… fra le cosce… a pochi millimetri dalla sobbollente vulva. Poi con un solenne Merçi! Mi baciò con tanto ardore. Si sa che un buon bocchino quando è fatto ad arte[26] scavalca ogni confine.
Ottime tagliatelle
L’ultima cosa che avrei voluto era di sovrappormi a Gloria nei sentimenti del suo fidanzato. La situazione però mi aveva talmente accalorato che non seppi trattenermi da implorare gridando:
«Guzzami Philipp… Guzzami!»
Ma non era ancora il momento.
Gloria dapprima mi guardò male ma un abbraccio fra lei e il suo grande amore la rasserenò.
Dovetti fare affidamento al mio selfcontrol e ad impegnarmi in un profondo ditalino per non sbiellare nell’assistere ad un’interminabile trombata fra i due colombi.
Seguì un intervallo in cui si parlò di letteratura e si mangiò ottime tagliatelle per ripristinare la gallica virilità.
Una goccia di sangue
Nel silenzio della notte giunsero fin lì i tre rintocchi di Palazzo mentre percepii una lingua percorrere tutto il mio filone della vita,[27] superare l’osso sacro e lambire il buco del culo «Mervejeuse femme, je voudrai…»
Mi ero assopita. Mi girai di scatto:
«Oh, Philippe mi ero appisolata ma ti aspettavo… Gloria?»
«Elle dors, mais tu à sa benediction a faire l’amour avec moi[28]» e fu in me in un baleno.
Il confronto fra il secondo cazzo della mia vita con quello di Berto fu inevitabile: c’era un marcato vantaggio del secondo in grossezza ma la qualità della trombata nel suo insieme era sicuramente a favore dell’oca parigina.
Non aveva fretta le garçon e così potei sfogarmi due volte.
Lui si era risparmiato e non capivo perché se ne stesse lì col billo duro accarezzandoselo con una luce anelante nello sguardo.
«Ancora bocchino?» timido sorriso e fraterna carezza per diniego.
“Peccato” dissi fra me.
Fu Carlo-Carlo a svelarmi quel che cercava di dirmi:
«Non capisci, zuccona, che vorrebbe il culo ma non s’azzarda a chiedertelo»
Feci una sonora risata che sbalordì il bel Philipp.
Nulla gli dissi. Sennonché mi misi carponi e presi a roteare sensualmente la pera[29].
Philipp superato lo sconcerto per la rivelazione usò nei confronti del mio tafanario[30] una determinazione e un vigore che non gli avevo riscontrato nella gentilezza insita nei suoi comportamenti. Il beneficio lo ritrovai quando lo sperma inondò le viscere. “Un’inculata portentosa!”, si può ancora leggere sul mio diario di quella lunga e intricata giornata.
L’ impeto dello stantuffo provocò una goccia di sangue. Philipp ne fu tanto amareggiato e volle provvedere a lenire la ferita con tanto affetto. Stemmo parecchio tempo a parlare dei miei scritti e del suo maestro a cui avrebbe fatto leggere una delle mie storie che Gloria gli aveva spedito tempo indietro.
Era già l’alba quando lasciai la casa di Gloria. Io abitavo a pochi passi. Bologna stava già organizzandosi per una nuova settimana. Ero stanchissima. Ah, una calda doccia e un lungo sonno[31]… e una spalmata di crema nel culo!
Gli addetti scorrazzavano per tutta la Città per rimetterla a nuovo per farla trovare ben pulita ai bolognesi.
«Bèla figa» mi sentii dire da un camion di passaggio.
«Ói!» gli dissi salutandolo con la mano. Quella notte o mattina che fosse mi sentivo proprio una “Bella Figa”: avevo trovato e provato Cazzo2. Oltretutto un uṡèl internazionèl’
Occhio per occhio
La scenata e le offese del giorno prima di Berto mi avevano incattivito: vent’anni d’amore distrutti in un’ora. Poi il Signore l’aveva punito tramite Carlo-Carlo, ovvero l’ectoplasma di sostegno. Ne avevo provato piacere quando Carlo stesso me l’aveva confessato. Eppure, con ansia mi ero precipitata al suo capezzale dove ero stata insultata con dovizia di particolari innanzi a medici, infermieri e nel momento che angosciata anche lei, entrava nella stanza sua madre: persona adorabile.
Tutto questo mi aveva messo in tale malanimo che nelle giornate che seguirono, baldanzosa più che mai, andai all’agenzia di cui Berto era divenuto direttore e chiusi il mio conto corrente dicendo al di lui collega che provava di farmi recedere dalle mie intenzioni, che cambiavo banca per un’indiscrezione di Berto sul buono stato dell’Istituto. E si sa che nelle banche il pettegolezzo è crudele e nefasto. Anche questo atto vendicativo era un suggerimento fantasmatico.
La lettera e la fiala
Philipp nei pochi momenti di dialogo che avevamo avuto quella notte mi aveva incoraggiato a scrivere di più e soprattutto a scrivere di me stessa che secondo lui ero così troja che ne avrei avute di belle da raccontare. Dopo mi chiese scusa quando seppe che prima di quella notte avevo solo scappellato sempre e solo lo stesso cazzo.
Non passò più di una settimana e ricevetti da Philipp un pacchetto con lettera dove diceva di aver dato al grande Roland Leccon il mio racconto e che, questi, mi sollecitava ad inviare al suo indirizzo copia del più recente romanzo che avevo nel cassetto. Assieme alla lettera c’era una fiala curiosamente delle dimensioni e della forma di un fallo in erezione Conteneva un denso liquido chiaro e portava un secondo biglietto. La medesima scrittura molto più in piccolo: “Ma chère Monique nella fiala con l’etichetta ‘Jasmine’ c’è un po’ di me. L’ho sottratto furtivamente alla scorta che mia moglie serba. E’ roba fresca: l’acme di seghe e pompini che lei mi ha fatto con mani, bocca e cuore, negli ultimi due mesi. Aurore è il nome di ma femme”.
C’erano i saluti e un motto: “Ah, le bocchino italieno” e un PS: “Sull’etichetta ho messo il nome ‘Jasmine’ così tu, mon Amour, capisci subito come usarlo.”
“Ah, la classe d’Oltralpe!”
Tolsi il tappo e odorai: c’era tutta la fragranza di spezie che avevo gustato nel succhiargli la fava. Rimisi il tappo e visto la forma della fiala decisi di utilizzarla proprio per la su forma. Il liquido l’avrei usato per tonificare le grandi labbra della vulva prima di darla a un ipotetico futuro Cazzo3.
Slacciai il tailleur, via calze e reggicalze, giù gli slip: la clitoride reclamava attenzione. L’oca vitrea fu il succedaneo più appropriato.
Allo specchio notai le guance rigate dall’allumacatura di qualche lacrima che mi era sfuggita nell’orgasmo. Erano le prime lacrime di gioia da tanto tempo. Troppo!
Mi ricomposi e quel giorno volli dedicarlo a mamma mia che era tutta agitata perché mio padre dopo aver consumato tutto il patrimonio di famiglia in giro per il mondo con troie e ballerine, era tornato. Le aveva chiesto perdono e l’aveva trombata cinque volte in due giorni.
In fondo era stata lei, la vogliosa Norma, ad introdurmi agli artifizi del buchèn ala bulgnaiṡa, tanto utile nella vita di ogni giorno, insegnandomi impostazioni e artifici con l’ausilio di banane e del mitico Cornetto Algida[32].
Qualche parola e lunghi silenzi
A Bologna non è consueto che la primavera rispetti i propri impegni. Raramente è in anticipo, spesso in ritardo.
Quel 21 marzo, invece, fu un tiepido raggio di sole a svegliarmi. La stanza era piena di luce. Spalancai la finestra e scesi al piano di sotto per una doccia. Quando risalii lo sguardo cadde sul comodino dov’era posato il flacone di Philipp. Nelle ultime settimane in cui l’astinenza stava rendendosi fastidiosa aveva svolto un encomiabile servizio. E quasi ogni notte aveva avviato il mio sonno.
Quella mattina, il vetro, colpito dal sole spargeva cromatici riflessi che interpretai come sensuali richiami. Lo sollevai. Era tiepido, quasi caldo. Lo sfregai fra le tette. Lo misi in bocca e feci ad esso tutto quello che avrei fatto al Cazzo?, ma Cazzo3 non esisteva ancora. Ancora me lo impuntai in culo e lo strinsi forte fra le chiappe. bacagliav in qua e in là[33]. Uscii così nuda-nada sul terrazzino e chiamai a squarciagola Carlo-Carlo. Chissà che non riuscisse a materializzare in due e due quattro un Cazzo3 qualsiasi, lì, tutto per me. Dall’orgetta in casa di Gloria non avevo più avuto da lui segnali «Carlo-Carlo ne ho proprio bisogno!» Un’ultima invocazione poi mi rassegnai a sfogare con il simulacro.
«Oh, Philippe, Ph… – e presi a stuzzicare[34] l’irrequieta clito – Merde… merde… merde!» Il telefono s’era messo a trillare come un ossesso. Poteva essere il Carlino e tirai su.
Era Veronica, la madre di Berto. Quasi piangeva. Berto era uscito dall’Ospedale. Era lì accanto a lei. Stava bene ma era ingessato dalle spalle all’osso sacro.
Mentre raccontava questo un flash attraversò il mio pensiero:
“Che sfiga, niente da fare neppure ipotizzando un revival con Cazzo1!”
Tornai a Veronica che parlava.. parlava… parlava…. Secondo lei, Berto, era mortificato per tutto quello che era uscito dalla sua bocca. Insistette e me lo passò.
Non ci fu discorso fra noi. Qualche parola e lunghi silenzi. Sì, mi chiese scusa. Sembravano scuse sincere. Mi propose di andare a pranzo da loro la domenica dopo.
«Sì vengo» dissi più per confusione che per volontà. In me stavano riaffiorando sentimenti che credevo di aver superato.
Guardai Cazzo?, quello di vetro e lo riposi. Mi vestii e uscii. Sentivo che stava ripiombando su di me una cappa di mestizia.
Un buon caffè e quattro chiacchiere con quel simpaticone del barista mi avrebbero fatto bene.
Di sotto incrociai il postino che mi consegnò una lettera che automaticamente infilai nella borsa:
“Prima il caffè – mi dissi – tanto sono sempre robe da pagare”.
Il solito tavolino sotto lo specchio. Rudy faceva in modo di tenerlo libero a mia disposizione ogni giorno, almeno fino alle dieci. Se non andavo, il giorno dopo aggiungeva un caffè al conto
Ed ecco il caffè, una brioche dolce e una salata con un bel bicchiere di seltz gasatissimo. Sfogliai il Carlino.
Mi venne in mente il postino, era un bel giovane. Ogni volta che lo incrociavo cercava di attaccar briga. Se mi avesse portato la lettera su, solo un’ora prima, quando ero fuori dallo sparadello[35], sono sicura che saremmo ancora là e la telefonata della Veronica non l’avrei tirata su. “Ah, la busta che mi aveva consegnato…”
Il Prof. Roland Leccon scriveva
Mo cazzo! Veniva da La Sorbone. Sicuramente Philippe. Oramai imbucava una lettera ogni due giorni. Era in cotta dura ma fra noi c’erano mille e cinquanta kilometri e di mezzo c’era anche Gloria con cui sovente ci piluccavamo la bernarda e questo flirt con il suo uomo mi imbarazzava assai.
Con Philippe andavamo via di ditalini e seghe che lui si faceva fare da Aurore, sa femme e che poi ci raccontavamo nella successiva missiva. Io potevo solo raccontargli quel che ricevevo dalla sua rigida fiala.
«Ma non è di Philipp la lettera. Cazzo!» era del grande Leccon.
«Èt détt quèl?[36]»
«Scusa Rudy. Parlavo da sola»
Il Prof. Roland Leccon scriveva che M.eur Philippe, suo assistente gli aveva parlato di me e nell’occasione gli aveva consegnato per un parere un mio manoscritto.
In breve: dopo aver speso elogi sul racconto ricevuto, si diceva interessato a proporlo per la pubblicazione all’importante Olympia Porn di Amsterdam di cui era direttore editoriale. Chiedeva una cartella di note biografiche dell’autrice e una sua foto possibilmente in costume da bagno: un’usanza della più antica casa editrice hard-core (since 1908!) che pubblicava opere di soli autori femmine. E Philipp gli aveva anche detto che io ero una bella donna.
Trassi dalla borsa lo specchietto e mi diedi un’occhiata. Ero così contenta della piega che stava prendendo la mia vita che anch’io, guardando lo specchio mi trovai bella e arrapante.
Roland Leccon concludeva che il 13 di maggio sarebbe venuto a Bologna per la firma del contratto. Fissava già l’appuntamento alle ore undici all’Hotel Palace. Univa una foto di lui in abito cattedratico.
Riposi la lettera. Dimenticai di pagare il conto e con un’ingiustificata fretta rientrai. Passai in rassegna ai cinque bikini che possedevo e scelsi il più striminzito. Andai poi di corsa in uno studio fotografico. Prima feci sosta da un parrucchiere per un riordino ai capelli e un trucco come si deve.
No! e mi staccai da lui
E venne la domenica. I pranzi della Veronica erano sempre dei piccoli capolavori sia nei sapori che nella presentazione. Mangiai con entusiasmo e lo dimostrai dando un bacio a colei che scherzosamente da vent’anni apostrofavo a come ‘suocera’. Era donna allegra e un tantino furbetta. E anche quella volta non si smentì e trovò una scusa per assentarsi e lasciarmi da sola con suo figlio. Mi sentii a disagio ma mica potevo svignarmela così senza una ragione. Mi rassegnai alla situazione.
Berto partì subito all’attacco tirando fuori l’uccello ben in tiro per dimostrare quanto mi desiderasse e che poteva metterne in cantiere subito una malgrado l’impedimento del gesso.
Sì, era sempre un pendaglio apprezzabile! In quel momento, la sua cappella, catturando la luminosità dell’ambiente, riluceva. Era difficile continuare a dare ascolto al rancore ch’era in me. L’astinenza prolungata mi suggeriva di gettarmi a capofitto su quella proposta, non certo campata in aria. L’avremmo potuto fare, con la formula ‘svelta e alla pecorina’, appoggiandomi all’elegante Frau[37] di pelle rossa che troneggiava accanto alla finestra. Se debbo dire la verità stavo già per scoprire il culo che, vigliacco come pochi, Carlo-Carlo mi sussurrò:
«Secondo me quello di Philipp è più grosso»
Una mossa bassa che fece prevalere il mio orgoglio di donna offesa.
Sorrisi alla profferta:
«Lascia stare, sarebbero solo acrobazie. Rimettiti in sesto prima»
Sviai il discorso sul Carlino per il quale da dieci giorni mi facevano lavorare a tempo pieno e mi pagavano bene. Gli dissi che stavo scrivendo molte mie cose ma non accennai alla lettera di Roland Leccon.
Lui tentò un’altra avance. Prima si scusò per lo schiaffo che aveva scatenato la nostra rottura. Aggiunse che se fossi tornata con lui non avrebbe mai più messo becco nella mia attività artistica. Mi sembrò sincero e mi lasciai baciare. Qualcosa di lui era ancora in me e non dissi nulla se la sua mano aveva sollevato la gonna e cipollava[38].
Forse la sua mano per la prolungata astinenza aveva perso quel garbo che avevo conosciuto in migliaia di pistolate. Le sue non erano più carezze, mi sembravano piuttosto il tentativo di riappropriarsi di un corpo che non gli apparteneva più.
Stoppai la passione che continuava ad altalenare in me:
«No!» e mi staccai da lui.
Nell’altra stanza avevo sentito che era tornata anche Veronica. Andai a salutarla.
«Quando ci rivediamo?» notai che la voce di Berto aveva una nota di scoramento.
«Facciamo che per un po’ ci sentiamo ogni giorno per telefono. Una sorta di rodaggio» gli sorrisi e lo baciai.
Sono un po’ troia
«Mi apri? – avevo suonato da Gloria – Hai voglia di fare qualche sguazzino con me?»
«Capiti bene»
«Cosa c’è Philipp?»
«No ma stavo per telefonarti per la stessa ragione – poi – Ti è rimasto negli occhi eh, il francesino»
«Ma dai. Mi ha solo permesso di superare un momento difficile. Poi averlo fatto assieme a te è stato un toccasana… Pensa che da allora non l’ho fatto più con nessuno… Dai spogliati» sembrava che avessi recuperato la gaffe. Gloria era terrorizzata dalla paura di perdere il suo parigino con cui trescava da un po’ più di vent’anni.
«Però sei venuta due volte a cercarmi… Non è che stai diventando completamente lesbica?… Le mutande me le togli poi tu… Mi piace tanto!»
Le feci il verso della tigre e le saltai addosso.
«Ancora.. Ancora… Ancora…» la incitai che aumentasse l’attività della lingua in figa e delle due dita nel culo.
Nel farle un prolungato ditalino le raccontai della cena a casa di Berto e della lettera del prof. Leccon. Nulla invece del rapporto epistolare che era iniziato con il suo amante.
Sì forse ha ragione mamma mia: “Sono un po’ troia”.
Il mio amore è nato a Malaga
Accesi la filodiffusione e la stanza si riempì di musica, guarda caso francese. Avvertii il ben noto venticello: «Hai pistolato tu la filodiffusione?»
«Volevo solo mettere all’ordine del giorno i tuoi rapporti con Parigi»
«Vedi di non intrometterti nei miei affari internazionali»
«Si fa per dire. Sono appena rientrato da Malaga dove ho messo pace fra due sposini già incazzati in viaggio di nozze. Una missione difficilissima ma anche una vacanza bellissima. Hotel cinque stelle con piscina e un mare di gnocche sempre mezze nude e sempre dietro a guzzare. – si mise a cantare “Il mio amore è nato a Malaga… Malaga…”. – Mi faresti micca uno di quei buoni aperitivi che facevi al tuo moroso prima che facesse l’imbecille?»
«Ah, io te lo faccio. Come faccio poi a dartelo lo sa solo dio»
«Tu rienpi[39] il bicchiere che al resto ci penso poi mè»
Ghiaccio e mixer, preparai due abbondanti Negroni[40]. E qui assistetti a un episodio di arte magica: il bicchiere si sollevò da solo per fare cin-cin contro il mio. Proseguì verso l’alto, si inclinò e si svuotò in apparenza da solo. Ridiscese e si fermò sul tavolo.
«Sai Carlo-Carlo se fosti un essere umano te la darei subito»
«Non dire cose del genere!… Se proprio vuoi vai a fare una doccia»
«Perché puzzo?»
«Mo no gvè! È perché ti spogli tutta e posso slumarti e darti qualche palpatina qua e là»
«Caràggna d un lêrz»[41]
«Cosa te ne frega? Non mi senti e non mi vedi?»
«È proprio per quest’inganno!» facemmo assieme una bella risata.
«Ascolta bella donna, apri mò le braccia… ecco, adesso chiudile mò… Vedi… in mezzo ci sono io. Hai sentito qualcosa?»
«Mo mé nå»
«Vedi! E dire che ti ho anche lecccato un’orecchia!»
Mi spogliai davanti a lui, se si può dire, poi allargai le braccia e lo chiamai. Chiusi le braccia e lo tenni stretto a me per un po’:
«Cos’hai provato?»
«Una cosa indescrivibile, che tu da viva non puoi capire:.. Tu invece?»
«Ma? Mi è sembrata più calda l’aria attorno a me»
«Sei proprio un’amica Monica» Lentamente s’allontanò cantando quell’assurda canzone.
Nella doccia mi ero poi seduta sullo sgabello e appoggiata alla parete mi ero lasciata andare alla melodia che lo scroscio dell’acqua, rimbalzando sulla pelle, mi suggeriva. Era una ninna nanna antica ed ebraica che chissà mia madre dove aveva imparato e che di tanto in tanto mi cantava. Anche da adulta quando mi vedeva malinconica. E si sa che le buone ninnananne fanno dormire. Così mi ero appisolata e forse avevo anche sognato.
Pisciata con bidet e cinque gocce di Chanel n°5
Per l’incontro con il Professore mi ero preparata con grande diligenza:
Il giorno prima:
tre frizioni alle tette e alle grandi labbra con la composta di sperma inviatami da Philipp.
La sera prima:
tre copie del manoscritto, tre copie delle mie note biografiche e sei pose in bikini più o meno allacciato.
Tutto nell’elegante borsa di cuoio, regalatami per la laurea.
Di buon ora il giorno stesso:
parrucchiere per aggiornamento alla chioma e visagista per il trucco con, un’aggiustatina al pelo della bafiona. Non si può mai sapere.
Mezz’ora prima dell’appuntamento:
pisciata con bidet e cinque gocce, di Chanel n°5[42]. Tutto in quel bel diurno liberty, accanto al Cinema Fulgor[43] in via Monte Grappa.
Hotel Palace
Il maitre del Hotel Palace[44] non fece in tempo a rispondere alla mia richiesta che:
«Sono Roland Leccon, voi siete Monica? – erano le undici spaccate – Sono sicuro che lei dopo vorrà pranzare. Io dopo non riesco mai a farne a meno. Mi farebbe piacere che lei fosse con me a pranzo» e al maitre prenotò per tutti e due. Io non ero neppure riuscita a confermare che ero Monica.
Era un gran bell’uomo Roland. Molto più giovane di quanto ne avessi dedotto dalla foto ricevuta. Stavo per fargli sentire la mia voce ma lui:
«Sono molto in gamba in questo hotel. Mi hanno dato una suite all’ultimo piano con terrazza e vista panoramica sulla Città. Vedrà quanto ce la godremo! Conosce già questo hotel?» E finalmente mi lasciò il tempo di rispondere alla sua sibillina domanda
«No… non conosco gli alberghi della mia Città»
«Avete una bella voce signorina Monica…»
«Sesto, signori?» il lift
«Bien sure. Sesto. Merçi! – poi di nuovo a me – Mi ha parlato molto di voi Philipp. Poi voi avete aggiunto il resto nelle note biografiche. – e sventolò il foglio che gli avevo spedito. Mi aveva incantata. Ascoltavo, lo guardavo e lo seguivo – Oggi mi mancava solo di scoprire che profumo mettete. È Chanel n°5, una scelta di buon gusto. Adesso che so anche questo è una ragione in più per portarvi su» il ragazzo ci aprì le porte. Leccon gli diede qualche moneta. Sicuramente nello scendere il ragazzo avrà pensato:
“Questa gliela dà entro mezz’ora” La stessa cosa pensai anch’io.
In Francia, Svezia, Norvegia e Danimarca
La suite era un ambiente unico e vasto. Un matrimoniale immenso e al lato opposto un salotto con quattro poltrone e un tavolino al centro. Quattro erano anche le finestre che, aperte, lasciavano scorrazzare la buon’aria primaverile in lungo e in largo. Mi avvicinai alla finestra e in effetti era una gran bella veduta.
Roland scartabellò nella sua ventiquattrore di coccodrillo e venne a recuperarmi per farmi accomodare su una poltrona.
Il sorriso gli si allargò sul volto, forse anche un po’ arrossì nel mettermi in mano il contratto e dirmi:
«Tu, ora, me la dai e il manoscritto che mi hai mandato verrà pubblicato in Francia, Svezia, Norvegia e Danimarca. Guadagnerai una bella cifra che dopo che avremo consumato quanto previsto dal preambolo, antico rituale della Casa, avrai al settanta per cento in assegno. Il resto ti sarà dato a Parigi quando verrai a presentarlo a “Oiseau Livre”, le Salon Mondial du Libre Pornografique. Nel contratto è tutto specificato» Potevo mai rifiutare?
Sul tavolino c’era già la penna. Firmai.
Sì e no il tempo di un sorriso e la sua mano delicatamente prese la mia per sospingermi nella zona letto della suite.
Erano passati quindici minuti!
Quel leggero accento francese
Lui seduto sul letto, lasciò la mia mano per dedicarsi ai laccetti delle scarpe.
In quello stacco mi domandai se anch’io avrei provato quel turbamento che, mi han sempre detto, tutti subiscono la prima volta che per denaro, stanno per dar via una parte di loro stessi: A me, anche allora, non sembrò proprio potesse succedermi.
Piuttosto, ascoltando quel repertorio blasfemo che il mio idolo letterario sciorinava contro i laccetti delle scarpe, mi liberò dalla magnetica soggezione che mi soggiogava alla sua disinvolta sicurezza.
Non certo volevo tornare sui miei passi e uscire da quella situazione. Anzi:
“Vedrà quanto ce la godremo” aveva detto prima di salire ed io era proprio quello a cui miravo e per cui mi ero preparata. Solo che volevo essere io a condurre il gioco.
Il tempo che lui impiegò a togliersi scarpe e calze io ero già ritta innanzi a lui scalza e in sottoveste. Sicché alzando lo sguardo gli venne da esclamare pur con un leggero accento francese:
«Mo sócc’mel !!»
Le sue mani cercavano di liberarmi dal sottabito
Fu il segnale che diede il via al nostro convivio amoroso.
Al bando la soggezione, il bon-ton, il rispetto e, perché no, il femminile pudore e la finta ritrosia, gli diedi quella dolce spintarella che lo fece sdraiare. Gli fui sopra baciandolo forsennatamente.
Sentii subito che le sue mani cercavano di liberarmi dal sottabito. L’aiutai. E lo feci anche coi bottoni della sua camicia e i preziosi gemelli d’oro e rubini.
I calzoni volle toglierseli pudicamente lui voltandomi le spalle.
In ginocchio in mezzo al letto con solo la biancheria intima ci guardammo compiaciuti. Io vi aggiunsi una smorfia da gattamorta.
Ai êren prôpi dû bî rà mâg’!![45]. Io in quella biancheria avevo investito un patrimonio. Meno male che avevo avuto modo di mostrarla, facendo, mi sembrò, bella figura. E fu una volta in più in cui mi sentii proprio una bella figa!
Presa dall’entusiasmo allungai la mano per andare oltre al boxer di seta avorio:
«Penso io» e lo fece con un’agile capriola a gambe levate.
A me invece eccitava venire spogliata. Gli volsi le spalle, lui capì e cadde il reggiseno. Mi baciò a lungo sul collo e fra le scapole senza fermare le mani che aggiungevano brividi accarezzando il seno.
Tutto si svolgeva con delicata calma e mosse pensate. Forse perché lui voleva dimostrare di essere quel pensatore che tutti dicevano fosse. Ma?
Ero curiosa di guardare in faccia, o per meglio dire nel ghigno, quello che sarebbe diventato Cazzo3.
Lo sentivo sodo, ora contro il fondo schiena, ora sotto le chiappe. Era già una consolazione. Non si può mai sapere!
Il mio slip però er’ancora al suo posto. E questo mi preoccupava.
Garbatamente Roland inserì da dietro una mano fra l’elastico e il coccige. Due dita arzigogolarono attorno al buco del culo.
Poi lui si accorse che erano predisposti due nastrini laterali. Bastava tirarne uno…
A quel punto fra noi non ci furono più ipocriti veli.
Mi girai e spinsi forte la fregna contro il suo gingillo che a onor del vero di primo acchito mi sembrò più bazzotto che duro. Mi sollevai e glielo presi in mano sedendomi al suo lato. No, non era bazzocco. Poteva meglio definirsi ‘verosimilmente duro’. Mamma mi aveva ben istruita nel caso che…:
«Fagli un mezzo bocchino: se si drizza, stai tranquilla. Se resta a riposo può diventare un problema e quando proverà a infilarlo si potrebbe anche piegare. Con gran dispiacere par te e anche per lui» e così feci.
Roland mormorò con un afflato impercettibile:
«Ah, le bochinó italieno» e così capii che con Philipp avevano parlato a lungo di me.
Socchiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla nenia di splish-splash delle mie ganasce che pompavano il suo cazzo a cui dedicavo tanto impegno perché potesse fregiarsi di divenire il Cazzo3.
Impegno coronato dopo una decina di minuti con un’erezione sufficiente a impuntarmelo nel taglio della bafiona e farlo scivolare dentro.
Cominciai la sarabanda saltandoci sopra fino a che non raggiunsi un dignitoso orgasmo.
Adesso sì, poteva dirsi Cazzo n°3. Anche se paragonato a Cazzo n°1 di Berto: la spingarda. Al ‘2’ di Philippe: il tronchetto della felicità. Questo non poteva che classificarsi come, ‘il pisello’.
Comunque considerata la carenza d’oca di quel periodo potevo dirmi soddisfatta. In definitiva avevo tirato sù:[46] un discreto orgasmo e un contratto vantaggioso con una barca di quattrini esentasse. Tutto questo con la piacevole compagnia di un grande letterato che mi aveva lusingato sia come scrittrice che come femmina e offerto un ottimo pranzo annaffiato da champagne.
Poi, volete mettere, una guzzata dal proprio Maestro! Quello di cui avevo letto tutto fin da quando ero un coperchino. Letture che avevano formato la mia coscienza sessuale. Che mi avevano fatto scegliere cosa studiare all’università. E soprattutto che mi avevano dato il coraggio di scrivere, mostrare e pubblicare.
Grazie caro Leccon, anche se hai un pisello così così.
Comunque per me sarai sempre Cazzo n°3.
Pippe all’unisono in diretta telefonica
Quel meretricio a cui mi ero abbassata mi aveva fatto rinascere. Sotto il peso di quel cospicuo assegno, sia pur, guadagnato anche con l’ausilio della patonzola, ero allegra e si era rivivificato in me il desiderio di ridarla via a chi e come pareva a me… e mi venne in mente Berto. Che in effetti, malgrado la sua violenta reazione e gli insulti restava ben presente in me.
Con lui ci eravamo sentiti puntualmente ogni sera. Eravamo tornati buoni amici, sia pure solo telefonicamente. Ci parlavamo con affetto e solo la sera prima ci eravamo masturbati all’unisono in diretta telefonica:
«Oh, Berto… Berto se fosti qui con la tua spingarda te la leccherei per un’ora e tre quarti» Erano le nove e un quarto! Così avremmo fatto venire almeno le undici.
La scarsa performance del ‘chiarissimo’ prof. Leccon mi aveva riconciliata con Berto.
Con le corna che gli avevo messo mi sentivo sufficientemente ripagata dagli insulti ricevuti. Certo che non gli avrei mai più giurato fedeltà, ma questo era qualcosa che riguardava il futuro… Poi mica lo doveva sapere!
In quel momento… giorno di grande gioia, desideravo concluderlo godendo con il mio primo uomo nonché Cazzo1
Così appena in strada esplose in me la gioia di telefonare al mio Berto. Raccontargli tutto. Senza la chiavata naturalmente. Gli avrei detto: “Hai a mente Jasmine? Quella dei romanzi francesi? Adesso nella vetrina delle librerie sarà accanto alla mia Gaudenzia, contessa di Torrependente”. L’avrei tosto rassicurato che il mio libro non avrebbe circolato in Italia e che per i primi tre anni sarebbe stato pubblicato solo in tedesco. Per cui il rischio che qualcuno dei suoi superiori, tutti bigotti, lo intercettasse era praticamente nullo. Gli avrei snocciolato la cifra che avevo già in tasca e che se lui ci stava sarei andata a prenotare un tavolo per la nostra cena da Rodrigo[47]. Lì a due passi.
«… e stasera pago io!»
Sempre un po’ troia
Il ‘pago io, ’mè’, mi si spense in gola sopraffatto da urla, insulti, minacce e proibizione di disturbarlo ancora in ufficio. Aggiungendo che ogni volta che mettevo piede nell’agenzia che dirigeva o che gli telefonassi, la sua carriera costruita… bla, bla, bla… andava a rischio.
Lasciai cadere la cornetta che rimase pendolante mentre il microfono continuava a vomitare epiteti a me, che ero «una vacca». A mia mamma, «troia da sempre», che mi aveva insegnato ad essere più troia di lei. E anche papà, secondo lui, oltre che cornuto avrebbe avuto anche «il culo rotto». Della mia famiglia risparmiò solo il gatto.
Mi appoggiai alla parete trasparente della cabina. Erano quasi le quattro e i miei occhi si annebbiarono di lacrime che colarono coinvolgendo il trucco e facendo del viso che avevo tanto curato per l’occasione, un mascherone inguardabile.
Tlic Tlac
«T’è capitato una sfiga? – Forse era di qualche anno più giovane di me. Aveva una bella macchina fotografica a tracolla e aspettava che lasciassi la cabina – posso esserti in qualche modo utile?»
Tirò fuori un pacchetto di sigarette e me ne offrì una. Fumavo di rado ma ne accesi una.
«Se… mi accompagni a fare un giro per Bulaggna… credo mi farebbe bene. Ho bisogno di aria fresca e vedere gente… gente nuova»
«Posso farti adesso una fotografia che poi ti darò?»
«Ma no, che sono tutta inbaccellata» ma lui l’aveva già scattata.
«Vedrai che anche questa ti farà bene… – poi – Se porti pazienza un momento mando a fare dei grugni la morosa e vengo con te anche nel canale» Riuscì a farmi sorridere. Quello che però mi sorprese fu la conversazione con quella poveretta che stava all’altro capo del telefono:
«Moira… ho preso una decisione… Sì… Definitiva… Fatti rompere il culo da chi ti pare… Ne ho abbastanza di tè… Vai per la tua strada che io vado par la mia» e chiuse la conversazione.
Uscì dalla cabina tirando un sospiro di liberazione:
«Era un anno che volevo prendere questa decisione» e mi scattò un altro ritratto.
«Sai che mi hai dato un’idea… Aspetta tu adesso»
Tornai in cabina e tornai a chiamare il ragionier Alberti.
Berto era stato liberato dal gesso ed era tornato subito al suo lavoro. E Berto andò fòra dai guêrz[48] appena riconobbe la mia voce. Non gli lasciai il tempo di intonare un altro refrain di contumelie e senza cambiare pressoché nulla della frase che avevo appena udito dal mio casuale inspiratore, gliela sciorinai pari pari, riattaccando con energia.
Carlo-Carlo fu d’accordo ma me lo disse solo il giorno dopo. Segno che anche lui di tanto in tanto, anche da fantasma, cominciava a pérder di cócc’[49].
Non avrei mai immaginato che più di vent’anni passati assieme e alcune migliaia di trombate potessero dipendere da un gettone telefonico.
Berto per l’orgoglio che aveva nel cuore e la carriera nella testa, non si fece mai più ne vedere ne sentire.
Qua e là per mezza Bologna
A quel ragazzo non domandai il nome e lui non me lo disse.
Girammo qua e là per mezza Bulåggna. Lui continuamente scattava foto. Lambiccava nella sua macchina e mi parlava della sua ambizione di diventare un reporter.
In tasca non aveva un soldo ma andammo ugualmente a berci un caffè e un paio di bicchieri di vino. Pagai sempre io. Lui con un certo imbarazzo disse ogni volta:
«Ti darò tutto indietro… in fotografie» e “tlìc”, me ne faceva un’altra.
Tutto questo aveva finito per divertirmi, tanto che appena apriva il fodero del suo aggeggio io mi mettevo in posa. Poi, giù a ridere.
Attorno alle sette feci in modo di essere nella D’Azeglio[50] del Mocambo[51], frequentata dalla così detta ‘Bologna bene’ ma anche da molti colleghi di Berto. Ne salutai ben quattro e per tutta la durata dell’aperitivo feci al mio sconosciuto accompagnatore tanti gesti affettuosi. Quelli che normalmente ci si scambia in una coppia con una consolidata intimità. E andai anche oltre chiedendo proprio a un collega di Berto se immortalava me e il mio amico in posa mentre, ceek to ceek[52], bevevamo i nostri cocktail. E si sa che in banca i pettegolezzi muovono i venti delle carriere.
Con questi piccoli atti vendicativi ero rientrata in tutta la mia abituale sfrontatezza. E convinta dell’archiviazione di Cazzo n°1 cominciava a frullarmi in testa qualche idea per Cazzo n°4.
Mi venne fame e non avendo rinunciato a festeggiare in maniera degna il mio ingresso nella letteratura…
Tlic
«Vai a casa a mangiare, Tlic?» mi venne da chiamarlo così, come quel ripetitivo rumore che -non smetteva di provocare con la sua invadente macchina fotografica.
«No. Alla sera vado a fare un paio d’ore da D’Amore, la pizzeria in San Flis[53], così tiro su qualche mille lire. In più mi danno da mangiare. Anzi, fra un po’ dovrò lasciarti. Mi dispiace. Sei belloccia e anche simpatica… Ma sai, con la miseria in bisacca[54]…»
«Se puoi fare fughino [55]stasera, i baiocchi ce li metto io e t’invito a cena da Rodrigo…»
«Perché poi faresti tutto questo per me?»
«Perché credo che tu mi porterai fortuna» e mi guadagnai un altro tlic
Rodrigo è un ambiente intimo. Sobrio ed elegante. Quella sera aveva solo due tavoli impegnati: in uno stavano quattro personaggi che parlavano sommessamente con tutta l’aria di essere gente che spostava da qua a là milioni. All’altro capo della sala una coppia che di tanto in tanto si scambiavano metallici sorrisi senza una parola ma mangiando avidamente. Un distacco che mi pareva accomunasse anche il mio accompagnatore che continuava imperterrito a tliccare l’ambiente, i camerieri e me dicendo ben poco.
Ordinammo lasagnette, cotoletta alla bolognese, una boccia di buon barbera piemontese, su consiglio del cameriere.
Il rischio era di finire a parlare solo di Leika e Kodac, così:
«È molto che stavi con la Moira?»
«Cinque anni. Ma era quasi un anno che non me la faceva più neanche nasare. Tu, invece?»
«Io avevo mezzo-rotto da un mese ma l’ho data a un altro anche un po’ prima di incontrare te» Tanto perché non pensasse che l’avevo invitato perché ero in cerca d’oca. Anche se, onestamente…
Facemmo il primo cin-cin e lui “tlic”.
«Beata te che almeno hai delle richieste. Io invece ho la manzéṅna quando voglio fare un cornino alla drétta[56]»
Mi fece tenerezza e gli feci una carezza.
Aveva occhi intelligenti e dimostrava tutta la sua età. Che era un buon po’ più giovane della mia.
Divorammo con golosità primo, secondo, contorno e torta di riso e parlammo anche tanto di ognuno di noi.
Anch’io ho il culo rotto
Lui era stato molto sincero con me e aveva raccontato di aver fatto qualche anno di studi in collegio e di aver dovuto dare il culo a un insegnante, ma che non ci aveva preso gusto. Anzi gli bruciava ancora tanto, anche solo il ricordo.
Non potei non stringergli le mani per solidarietà baciandogliele. E mi venne spontaneo dirgli, con l’espressione mesta che anch’io ero un culo rotto. Per me la mestizia era dovuta alla mancanza di quell’atto di pervertita voluttà che non avevo più ricevuto dall’incontro con Philipp. Ma questo evitai di dirglielo.
Nei nostri sguardi la passione c’era tutta e si vedeva. Il vino era finito e le confessioni più intime mi avevano seccato la gola e acceso la caldaia:
«Ci facciamo un calvados?» Mi girava già la testa ma lo reputai indispensabile al proseguimento della serata.
«Non vorrei approfittare…»
«Dai… dai… che dopo, se hai un po’ di tempo ti faccio fotografare Bologna dai coppi di casa mia. Sto qui dietro, al quinto piano… C’è una visuale!»
Arrivarono i calvados che ingollammo d’un colpo. Di scatto ci alzammo. Pagai e uscimmo.
Scatenato
Appena in strada il bel Tlic mi spinse contro un portone chiuso, mi ficcò la lingua in bocca e tirato su la gonna prese a cipolarmi «Mo sócc’mel, sei tutta bagnata. Se non è vero che abiti qui sopra ti guzzo in questo cantone» Era scatenato.
Nel liberarmi dal suo abbraccio tentacolare ebbi modo di sentire fra le sue gambe qualcosa di consistente. Fui io allora a spingerlo in direzione del portone di casa mia.
Nell’ascensore ripresero le danze ma qui ebbi l’accortezza di sfilarmi lo slip mentre lui chiudeva le porte del vecchio e lento trabicolo. Quando arrivammo al piano aveva già affondato due dita nella crepa. Ditalino che si concluse contro l’uscio di casa mentre cercavo le chiavi nella borsa.
Fu un’esperienza un pò estemporanea, a cui un funzionario di banca non si sarebbe mai abbassato ma che mi fece intravedere nuovi orizzonti, tanto che ricambiai improvisandogli un mezzo bocchino contro l’uscio, appena in casa.
Sollazzi in allegria
Essere nel mio ambiente rendeva più certo l’esito della serata e meno impellenti i miei desideri e potei assecondadre il bisogno di una doccia rigeneratrice. Adosso avevo ancora i residui della scarsa guzzata con Leccon:
«Ci metto dieci minti. Se vuoi puoi fare le tue fotografie dal balcone della stanza da letto che è su da quella scala»
«No, no. Io vengo a far la doccia con te»
«A che pro?»
«Perché se vuoi posso anche lavarti la schiena»
Non ci venne da trombare. Lí sotto i caldi spruzzi d’acqua ci lasciammo andare a fanciulleschi trastulli e per me fu anche prendere confidenza con la sua canna.
L’avrete già capito che per me gli allegri sollazzi mi danno gioia. E in quella notte lì, l’improbabile fotografo, che chiamavo Tlic, perché non volevo conoscere il suo nome prima che mi guzzasse, era impegnato a farmi provare tante piccole sensazioni che non ero più abituata ad avere: mi aveva insaponato la schiena fra baci dietro le orecchie e un delicato massaggio alle tette. Ciucciotti ai capezzoli e un giro di lingua all’ombelico, per giunta affogato nel bagnoschiuma. Un fiocco con la lingua in gola e un abbraccio ben sostenuto mi convinsero ch’era il giusto momento di prendere dell’oca davvero.
Gli strinsi forte la cappella e con l’altra mano chiusi i rubinetti.
Senza che ci asiugassimo lo spinsi verso la camera.
Anche la notte, nella sua essenza, contribuiva a stimolare romanticherie che avrebbero dovuto culminare in audaci chiavate: la finestra aperta mostrava una luna piena che illuminava a giorno la stanza. E ci si era messo pure Carlo-Carlo che aveva acceso la filodifusione. Sicché quando fummo sulla soglia partì Il cielo in una stanza[57]. Un’atmosfera che non mancò di stimolare la mia già alta eccitazione. Tanto che progettai di iniziare l’amplesso succhiandogli la cappella.
Poche pippe, adesso bisogna chiavare!
Invece capitarono fatti che è impossibile immaginare.
Li racconto schematicaamente come li annotai sul diario di quella complessa giornata.
Tenete presente che in casa mia per andare nella stanza da letto bisogna salire undici scalini.
“”E’ stata una bella idea la doccia assieme… Mi ha cotta al punto giusto… Poche pippe, adesso bisogna chiavare!… L’ho preso per mano e l’ho guidato su per la scala… Lo tengo d’occhio e vedo che l’uccello guarda sempre in alto… Sento che mi molla la mano. Si gira e corre giù… Torna con la macchina fotgrafica… “Vorrà fotografarmi nuda. Mai fatto ma che m’importa.” Spero solo che… E che succeda presto. Invece corre al balcone nudo e con il cazzo pendolante prende a fotografare la luna… la luna… «Fai l’imbecille?»… Ma lui: tlic qua, tlic là… «Ooooo»… ho urlato e gli ho detto di vestirsi e togliersi dai coglioni””
I riccioli del monte di Venere
Capì d’aver pestato una merda e cominciò a fare il carino. Io muta. Ginocchia strette. Figa secca e chiusa. Pur soffrendo. E quando provò ad avvicinarsi con la faccia mi girai dall’altra parte. Ma poi fu talmente grossolana la frase che uscì dalla sua bocca:
«Monica, mi piacerebbe tanto leccarti la figa» che non potei più fare la sostenuta.
Ne sì, ne no. Allargai i ginocchi e per un buon po’ la clitoride ebbe di che bearsi.
Era un gran buon leccatore!
Anche se poi mi disse che di figa ne aveva leccata ben poca. In ispecie alla Moira che lo considerava un esercizio contro natura. Quella notte credo che se ne cavasse la voglia: mi lasciai completamente andare al mio godimento e gli riempii la bocca con schizzi dei miei umori. Che lui, maiale come pochi, sputacchiò sulla coperta di pizzo ricamata da mamma.
Capii che con Tlic avevo imboccato la strada giusta.
L’intensità di quei tre orgasmi mi aveva spompata e mi appisolai. Mi svegliai che Tlic dopo avermi fotografato nella mia dormiente nudità si era seduto al mio fianco e giocherellava con i riccioli del monte di Venere.
E si sa che più la carezza è leggera più è malandrina.
Sempre dispari. Pari, porta sfiga
«Cerchi l’ispirazione?» Avevo fatto caso che la sua fava aveva perso quella prestanza che mi aveva ringalluzzita salendo la scala.
«Stavo ragionando, Cocca, se guzzarti subito o far passare la mezzanotte»
«Com’è sta faccenda?»
«È che… Tu quante sei abituata a farne»
«Oddio, almeno due se si può»
«Non va bene. O una, o tre, o cinque. Sempre dispari. Pari, porta sfiga… Sono le undici e mezza. Ci resta sì e no il tempo per farne una. Se la vogliamo fare con tutti i crismi – e precisò – Una, tre e cinque vanno fatte entro la mezzanotte» Un ragionamento che mi allibì. Tuttavia…
La Giornata Internazionale dell’Oca Morta
«Tu cosa consiglieresti?»
«Sicuramente tre dopo la mezzanotte»
«Scusa se te lo chiedo ma il tuo uccello adesso non mi sembra che possa affrontarle tutte e quante?»
«Chi, costui?» e fui spettatrice di un vero miracolo, che ora provo a raccontarvi:
””Il cazzo di Tlic, mentre chiacchieravamo mi sembrava sempre più disastrato. Appariva si e no come un palloncino sgonfio. E io reduce dall’esperienza mattutina con il ‘gran’ Leccon ero preoccupata Che quel giorno fosse la Giornata Internazionale dell’Oca Morta?
La voce di Carlo-Carlo
«Mo sócc’mel lui qui s’è lento – rintronò nella mia testa la voce di Carlo-Carlo, che non doveva essere solo, giacché in sottofondo distinsi un coretto – Basta parlare, vogliam veder chiavare!»
Avvinta come l’edera
Coerente con le sue convinzioni al secondo battere dell’ora di Palazzo, l’uccello di Tlic si era impuntato fra le labbra della vulva ed era scivolato dentro. Dentro… giù… giù… fin che aveva potuto.
Qui si era fermato per lasciare al roteare del mio bacino la libertà di creare godimenti. Mi ero sbizzarrita nel gustarmelo, lì in fondo, mentre lui mi parlava con dolcezza. Il che aveva surriscaldato l’atmosfera soprattutto per quella leggera enfasi data dall’affanno che s’impone ai migliori amplessi, quando ci si unisce la parola.
Il suo fiato si era fatto sempre più grosso fino a smettere con la voce lasciando la dialettica a figa e cazzo.
I suoi palmi si erano insinuati sotto le chiappe. Non sono culona. E avevo sentito con piacere stringerle forte nelle sue mani mentre le spinte aumentavano: dentro/fuori… dentro/fuori… e si era pur messo lui a mugolare elogi alla mia passera. Avevo compreso di stare approfittando di un lungo periodo in cui, lui, la figa era riuscito a vederla solo fra le gambe di qualche puttana o fotografata sui giornali da pugnetta. Fortunatamente questo ritorno in scena non gli aveva riservato un prevedibile precox.
Fortemente aggrappata a lui – mamma Norma avrebbe detto: “Avvinta come l’edera”[58] – ero venuta e rivenuta, senza che diminuisse il ritmo del suo coire.
Un prepuzio inox
Poi era successo che dopo averla estratta, aveva adagiato l’oca fra le mie tette e qui, stringendole, l’aveva lasciata svuotarsi fra orgasmici sussulti.
Un fatto poi mi aveva lasciato di sasso: il bel Tlic, con tanta dolcezza e un massaggio profondo si era messo a spargere il suo seme su tutto il mio seno. Mi aveva ricordato tante cose e gli ero saltata al collo baciandolo.
«Ti è piaciuto il massaggio? Si dice che tenga sempre le tette sode»
«E chi lo dice?»
«L’ho letto in un libro francese… Sai, uno di quelli maiali per segaioli»
«Secondo me l’hai imparato dalla Jasmine »
«Ói, proprio da lei lí. Mo tè la conosci?»
Questa comunanza mi aveva fatto salire al settimo cielo[59] e così, pistolandogli con noncuranza l’uccello gli avevo detto, piena d’orgoglio «Vedi Tlic, tè non hai idea con chi hai guzzato poc’anzi?»
«Quello che so è che è una bella ragazza, non una sbarbina… simpatica e con la figa che sa di cocomero»
«Ti ringrazio ma devi sapere che io sono la più gran esperta in Italia di Jasmine Clery. Di lei ho letto tutto e so tutto. E ne ho a lungo parlato con il suo autore e anche il suo assistente. Che a suo tempo mi confidò di essere marito della musa ispiratrice. Nonché inventrice del balsamo rassodante. Per dirla chiaramente è da quando avevo quattordici anni che mi sparo ditalini con quello che si racconta della Jasmine»
«E io pugnette» aveva aggiunto lui con ugual orgoglio.
Avevo però taciuto di conoscere assai bene anche i priapi dei due letterati che l’avevano creata e forgiata sulla carta.
Sarà stata l’emozione di conoscere il pedigree della vulva che aveva leccato, unito all’attività delle mie sapienti dita ma mi ritrovai fra le mani un rigonfio glande che sormontava un prepuzio inox.
Non c’era tempo da perdere!
Ero stata io questa volta ad infilarmelo e ad assestarlo nella miglior posizione e Tlic aveva liberato tutta la sua energia e fantasia per darmi un’altra copula degna di questo nome.
E si era ripetuto anche il finale ‘jasminiaco’. Stavolta però gli avevo fatto dirigere il getto sul volto:
«Non vorrai mica vedermi fra qualche anno piena di rughe?» e lui aveva poi sparso accuratamente il prezioso nettare su tutto il mio viso.
Fra noi si era saldata quella comunione che già pensavo che sarebbe andat oltre quella notte.
Mia madre mi chiama Adelmo. Tutti però Delmo
«Dimmi Tlic, qual’è il tuo nome?»
«A me piace molto il tuo Tlic, mo i miei mi hanno chiamato Adelmo Tutti però Delmo. Come quello famoso per le braghe[60]!»
Era veramente tanto che non baciavo con tanta passione un uomo.
Eravamo all’epilogo di quell’intenso match. Mancava solo la terza prova che volevo consumare in maniera ancora più scoppiettante, se mai fosse possibile.
In bagno: una gran pisciata e una rinfrescata alla gemma. Ne aveva bisogno.
Tornai tirata da figa: la chioma in ordine, qualche colpo di trucco e le solite cinque gocce di Chanel n°5.
Sull’uscio della stanza mi ero soffermata a contemplare Tlic che si era addormentato. L’avevo guardato con tutt’altro occhio. E anche il cazzo, rilassato sul suo ventre, mi parve che non riposasse ma che fosse in attesa di eventi.
Gli amici ectoplasmi di Carlo-Carlo
Ci si mise anche Carlo-Carlo a rompere l’incantesimo di quelle immagini:
«C’è ancora molto d’aspettare per goderci la terza? Che stra noi abbiamo scommesso che dovrebbe essere la più intensa»
Negli ultimi tempi Carlo-Carlo si portava sempre dietro un certo numero di amici ectoplasmi a cui aveva anticipato, ”Come chiava lei qui…” E lui passava per uno che se ne intendeva.
La mia bocca maiala
Ligia al detto “Ogni cosa lasciata è roba perduta” mi ero avvicinata a quel corpo dormiente e inginocchiata ne avevo sfiorato con le labbra il prepuzio e con la lingua la cuspide.
Avevo agito in maniera lieve e delicata ma il pene si era ritemprato all’istante.
Anche Tlic l’aveva assecondato, tenendo dolcemente ferma la mia testa contro il suo ‘augello’.
Avevo aperto le labbra e ne avevo accolto più che avevo potuto.
Mi è sempre piaciuto sbocchinare e più lo facevo più l’avrei fatto. Così stavo per portarlo a un inarrestabile orgasmo. Già immaginavo la colata del suo sperma nella bocca. Un po’ l’avrei inghiottito e un altro po’ sarebbe fuoruscito a lato del suo possente pezzo. Immancabile ci sarebbe stato il suo bacio. La sua gratitudine alla mia bocca maiala ben lorda della sua essenza… Poi… poi… poi…
La terza non possiamo saltarla
Poi lui mi aveva staccato dal suo corpo ed era sceso in bagno.
Era tornato quasi subito con un bel sorriso mentre si accarezzava l’oca ancor più in tiraggio:
«Se ti avessi lasciato andare fino in fondo sai quando avremmo potuto fare la terza? E quella non possiamo saltarla»
Il commento di Carlo-Carlo
E avevo carpito anche il commento di Carlo-Carlo ai suoi accoliti: «Il ragazzo sa il fatto suo»
Un bel ricordo
Un po’ imbronciata ero rimasta in ginocchio sullo scendiletto. Lui mi era venuto innanzi. Sollevai il volto. Era nella giusta posizione e così avevo riavuto in bocca il suo pene. Stringeva la Leika e sentii qualche tlic e un paio di lampi:
«Quando fra qualche anno le riguarderai, vedrai che bel ricordo ti sembreranno»
Mi aveva aiutato a rimettermi in piedi per fotografarmi due, quattro, cinque volte. Io sempre con l’espressione imbronciata. Mi aveva fatto sedere sul letto ed era passato ai particolari: la tetta, le tette, il capezzolo, le labbra, chiuse, aperte, pronunciate, la lingua, l’ombelico, il pelo, la figa in tutte le sue angolazioni. Con le dita che la tenevano aperta per mettere in mostra la clitoride.
Intanto mi era passata l’incazzatura per il bocchino interrotto e visto che si era dimenticato di immortalare il mio bel culo mi ero messa a gattoni parandogli innanzi all’obiettivo le colline del desiderio con l’intrigante grotta della trasgressione socchiusa. Faceva pendant con la prugna, che ripresa da dietro impreziosiva quello che volgarmente tutti chiamano buco del culo.
Appena avevo sentito esaurirsi i tlic, senza abbandonare la posa mi ero girata a lui con un eloquente sorriso:
«La terza possiamo farla partire da qui»
Applausi
Intense follate d’aria tiepida mi avevano confermato che Carlo-Carlo e i suoi amici stavano applaudendo con entusiasmo.
Il canto dell’amore
Non mi aveva lasciato dire altro e me lo aveva infilato anche se un po’ bazzotto. Quasi subito però aveva trovato la giusta durezza.
Era stata una trombata lunga ma fatta con garbo.
Lui, in piedi aveva giostrato l’uccello con grazia e decisione e io sentendo che stava sborrando sull’orlo del buco del culo avevo intonato i mugolii del canto dell’amore.
Si era poi dato daffare a spargere il natural unguento in tutta la zona, perché non solo tette e viso andavano mantenute nella loro giovanile prestanza ma anche le forme d’abbasso.
Il diabolico disegno
Ma questo riguardo non era quello che io credevo, giacché il perspicace Tlic/Adelmo/Delmo stava preparando un suo diabolico disegno.
Nulla aveva lasciato al caso. Anche il convincermi a divaricare i glutei per agevolare un lungo bacio con lingua al bocchello del didietro.
Avevo sospirato di piacere nell’assecondare le sue garbate attenzioni. Avevo rilassato la muscolatura e abbassato la guardia così non mi restò che uno scatto per il bruciore ma oramai:
«Ah, brutto porco!» il suo arbello aveva preso possesso del mio tafanario.
E non era certo un arbello di poco conto!
«Maleducato! Senza neanche chiedere “Permesso”» Ma non c’è peggior sordo di quello che non vuol sentire.
Mi aveva ingabbiata in un abbraccio di gran sensualità, in cui le mani mi stringevano il seno e la bocca, leccando e mordicchiando, interagiva fra il collo e i padiglioni auricolari. Il suo bacino manovrava sapientemente il ringalluzzito fallo nelle mie viscere. Segno che negli anni del collegio aveva avuto modo di rendere il ricevuto.
Fu un appagamento tanto differente da quello ch’era seguito alle precedenti trombate ma di intenso vigore.
Tlic non mancò di venire anche nel profondo del mio intestino e, quando si era ritratto avevo sentito colare fra le cosce parte di quanto mi era stato donato.
«Oh, Tlic, che meraviglioso maiale riesci ad essere!»
Quell’inculata
«Tlic, sveglia. Fra mezz’ora viene la Beba. La signora, mandata da mia madre a far le pulizie»
Lui dormiva con un russare forte.
Aveva poi raccolto in fretta e furia le sue cose e io tutte le biancherie che avevano partecipato alla tenzone per il cesto della lavanderia.
«Quell’inculata mi hai fatto incazzare…»
Non era vero ma lo dissi per evitare che lui si lasciasse andare alle smancerie del distacco che avrebbero rischiato di protrarsi a lungo.
«Le fotografie quando posso fartele avere?»
«Lasciami il tuo telefono»
«Non ce l‘ho. Dammi il tuo»
«A te ho già dato troppe cose. Ti aspetto qui domenica alle undici che poi andiamo alla messa assieme in San Petronio»
Il mio racconto si ferma qui
Carlo-Carlo che veleggiava nei dintorni mi trasmise il suo apprezzamento per la condotta e l’acquisizione del Cazzo n°4.
Questo per dirvi che soggetto fosse e sia Carlo-Carlo.
Lui è sempre nei miei paraggi anche ora ed è uno dei motivi che mi fa vivere per conto mio senza vincoli, chiavando quando e con chi mi pare, così posso scrivere e raccontare tutti questi fatti del cazzo senza offendere i sentimenti di alcuno.