Le porkeriole di Flavia

diario e fantasie di una scrittrice di bella presenza

Chi sarà mai sto Carlo Carlo – Il Coperchino

a cura di
FLAVIA MARCHETTI

CHI SARÀ POI MAI STO CARLO-CARLO?
dagli epistolari di Alberto Alberti e Monica Martinelli
Stories love’s and fantasma
Fra sesso, albana e, forse, boogie woogie stra Miramare e via Ugo Bassi

ENSTOOGHARD – Copenaghen 2014

I
Il Coperchino

““…ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo, e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri tanto più ardentemente ci dedicavamo ad essi e non ci stancavamo mai.””

Da Lettere di Abelardo ed Eloisa, Lettera I, XII sec.

Il povero mio padre

Il mio povero padre aveva un amico che tutti chiamavano Carlo-Carlo, anche se aveva nome Carlo Dallolio.

Una precisazione di Monica Martinelli

Io, pur se questa è anche in buona parte la mia storia, lascerò che siano le sue intriganti note ad introdurvici senza che io ci metta becco.

Sono appunti che il meticoloso rag. Berto, come tutti l’abbiam sempre chiamato, prendeva, quasi contemporaneamente a quanto gli succedeva attorno, usando la stenografia, scienza, per i più, incomprensibile ma non per i ragionieri.

Queste annotazioni mi sono pervenute in maniera un po’ bizzarra come molte volte si muovono le storie che mischiano amori, orgasmi, tradimenti, dolori e godimenti con ectoplasmi e fenomeni paranormali.

Ma andate pure avanti con Berto…

(Monica Martinelli)

… e questo è quanto Alberto Alberti ci racconta di Carlo-Carlo.

Carlo-Carlo, fu per me un fratello

Comunque, Carlo-Carlo, fu per me un fratello.

Sì. Un fratello più grande. Molto più grande. Lui era anche più vecchio che mio padre!

Fu lui a insegnarmi l’uso del tirino e della cerbottana e, quando crebbi ebbi da lui buoni consigli su tutta l’intricata questione delle pugnette.

Tanto per dire: quando m’incontrava mentre facevo lo sgaligino con una qualche ragazella, in confidenza, mi domandava se glielo avevo già messo in mano. E, alla mia risposta sempre sconsolata arrivava tutta la sua comprensione sotto forma di un’affettuosa pacca sulle spalle.

Una volta capitò anche che insistette per offrirmi un camparino al bar. Ma fu perché dissi che alla Luana avevo messo la lingua in bocca e tastato a lungo le tette tanto da sentire che le si erano induriti i capezzoli

«Ma lei ti ha almeno dato una sfregatina all’uccello?»

«Dai, Carlo!… Lì in via Ugo Bassi?»

Insomma, fra noi c’era quella familiarità che io non avevo con nessun’altra persona.

Tanto che prima che avessi compiuto i diciotto anni, mi aveva fatto provare l’emozione del casino. Garantendo alla ruffiana di Borgo Polese, che era poi sua sorella, che ero in perfetta regola con l’età: «Vuoi che non sappia quando è nato il figlio d’Evaristo? Quella sera lì, mé e suo padre, ciapammo una balla del santufizzio»

L’“Ars amandi” di Carlo-Carlo

Ma quello che più mi ha giovato nella vita è stato la sua Ars amandi: seduti all’unico tavolo del bar sotto casa, mi raccontava le sue esperienze erotiche. Un po’ per vanità e un po’ perché convinto di darmi buoni consigli. Più che altro per mettermi in guardia da quel romanticismo un po’ coglione che attrae gli adolescenti.

Erano discorsi che cominciavano sempre con “Devi sapere…” per svilupparsi poi nella narrazione d’un Bocchino … una chiavata o solo di una pugnetta. Un fatto che aveva segnato un importante momento della sua vita.

Già allora ebbi il sospetto che per dare simpatia a quello che stava raccontando, aggiungesse, qua e là, qualche elemento della sua fervida fantasia. Comunque trovava sempre maniera di trasformare ognuna delle sue faccende in esempio su cui riflettere.

L‘ascoltavo a bocca aperta.

Se poi arrivava mio padre, Carlo, mi strizzava l’occhio e se ne andava con lui. Dove? Lo sapevano poi loro. A volte ho avuto il sospetto che andassero a fare uno di quei ciappini che Carlo mi aveva appena finito di raccontare.

1950

Nel 1950 presi il diploma di ragioniere. Mio padre, invece, ai primi di ottobre, all’improvviso, se n’andò al santo gabariotto.

In novembre mi chiamarono alla Cassa di Risparmio, dove mio padre aveva lavorato per venticinque anni e mi diedero il suo posto.

A quel tempo usava così!

Presi servizio il primo di dicembre e da allora Carlo lo vidi solo tre o quattro volte. Ma senza mio padre non era più lui.

Fra Natale e Capodanno ci trovammo al solito bar sotto casa per farci gli auguri e mi meravigliò la deferenza con cui si rivolgeva a me. Quasi quasi mi dava del voi. E non facemmo neppure il rituale brindisi alla gnocca con il Camparino. Come avevamo da sempre ritenuto che scaramanticamente si dovesse fare.

Da quel giorno non lo vidi mai più. Fu un altro amico di mio padre a dirmi, poi, che anche lui era andato a far terra da pignatte.

Ciccio Bugamelli e quelle due

A qualche mese da questa notizia vissi un’esperienza che mi disorientò alquanto:

Io e il Ciccio Bugamelli eravamo andati a ballare al Settimo Cielo[1] e qui avevamo imbarcato due sbagerle che parevano saltate fuori dal cast di quelle “cattive” che si vedono su Grand Hotel[2]. Due brisa-beli, che stavano bene sia di culo che di tette e tanto disponibili a farsi cipollare e perché no, anche a farsi guzzare. Questo in special modo se ci fosse stata una mancia.

Questa opportunità mi era stata ventilata mentre con una di queste eravamo allacciati in uno smorzone pezzo forte dell’Orchestra da ballo di Ubaldo Cardallini.

«Sai mi piacerebbe tanto, fra un po’, quando verrà luglio, passare una settimana con la Maria a Marina di Ravenna. Ci sono tanti bei fusti, lì. Prendere il sole tutto il giorno e qualcos’altro alla notte» E aveva riso sguaiatamente.

«Non è un progetto impossibile, Marina di Ravenna e qui a uno sputo. Le ferie, come mi hai detto ti spettano di diritto e allora?»

« Ma sai per fare anche solo una settimana ci vogliono dei bezi e col lavoro che facciamo sia io che la Maria non riusciamo a mettere da parte mai un ghello»

«Ma dai… con il fisico che avete, altro che baiocco, in due e due quattro, se vi impegnate, sono sicuro che vi ritrovereste con un certo maghetto» E per dare credito alle mie supposizioni, spinsi la braga contro il suo basso ventre. Dal suo languido sospiro capii che aveva apprezzato il turgore.

Messaggio inviato e ricevuto cercai di capirne di più.

«Ma secondo te quanto ti ci vorrebbe per iniziare la raccolta?»

«Ma dai, micca abbiamo una tariffa. Si sta sempre al buon cuore del donatore. Però che sia bella gente e che salti fuori una cosa carina»

Lola, la cantante biondona, non più in giovane età, aveva concluso, nel suo ibrido francese, Les Feuilles mortes[3] e si erano riaccese le luci.

«Riposino» Aveva annunciato Il capo orchestra.

«Balli bene sai… Al prossimo» ed era tornata al suo tavolo con gli zigomi. infuocati. Raccontai al Ciccio la discreta trattativa che a avevo imbastito: «Ciccio, stasera si chiava!»

«A richiesta un giro di bughi» sempre il capo orchestra.

Io e il Ciccio guardammo nei portafogli e mettemmo assieme diecimila lire, che al successivo ballo demmo alle due tipe: «Queste per aprire la sottoscrizione. La serata prosegue altrove in un ambiente intrigante e carino» A quella col decolté più pronunciato avevo infilato la rossa banconota nel solco del seno.

Il Ciccio aveva con sé le chiavi del laboratorio da sarta di sua madre, che era lì a due passi. Sarebbe stato quello il trappolo dove si sarebbe consumata la serata.

Per strada approfittammo di tutti i cantoni bui per mettere in mano a queste due l’uccello e per tastar loro anche il buco del culo. Io e il Ciccio eravamo in fregola che più non si poteva immaginare. Anche perché, queste qui diventavano sempre più scatenate e maiale. Prima avevano voluto cambiare oca: così quella che stava col Ciccio si era messa al mio braccio e ogni tanto ravanava nella mia sfessa . L’altra, invece, aveva voluto mostrarsi mentre pisciava stando su uno di quei sedili di pietra che anche ora sono in Montagnola

Finalmente eravamo giunti a destinazione e il Ciccio stava cercando in ogni tasca le chiavi. Intanto una delle due, approfittando dell’intoppo, diede aria al mio mazzolo e, in ginocchio lo leccò in attesa che la porta venisse aperta.

E qui cominciai a sentire delle leggere sventolate d’aria e una voce che mi sussurrava: «micca far l’asino. Loro qui non si chiamano ne Paola ne Maria come vi hanno detto, ma Venusta e Argia. Sono di Massumatico e lì hanno impestato tutto il paese»

Mi guardai d’intorno ma in quel corridoio buio eravamo io, il Ciccio, la bagaglia col mio uccello in bocca e quell’altra che si guardava attorno con dubbiosa espressione.

Chissà da dove veniva quella voce che aveva parlato e che assomigliava a quella del povero Carlo-Carlo?

«Ma stai scherzando?» mi venne da dire a voce alta

«Hai detto qualcosa?» fece il Ciccio.

«ÓI, ma mica parlavo con te»

«E con chi, allora? Visto che le ragazze sono già dentro. Dovevano andare con urgenza al cesso. Speriamo si facciano il bidè!»

«Sta zitto e ascoltami che ho un sospetto terribile» e gli raccontai quello che mi era capitato.

Cominciò a ridere «Dì sù, quanti vermut ai bevuto stasera?»

«Ti giuro che quella voce, era quella di Carlo-Carlo e io, a lui, non gliela faccio a non dargli a mente ».

«A lui chi?

«mo a Carlo-Carlo!»

«Mo se mi hai detto che è morto da tempo?»

«Mo fatti dar nel culo tè e tua sorella… Non mi vuoi proprio capire! Sicuramente è il fantasma di Carlo-Carlo o una roba del genere, che mi consiglia. Così come ha sempre fatto da vivo… e a lui non posso non credere».

«O Berto… dimmi mò cosa vuoi fare?»

«Ti sono sincero Ugo… – che era proprio il nome del Ciccio. Intanto si fece vedere una delle due sbagerle che s’era già spogliata e si mostrava in giro in sottabito – … a me la gnocca piace più che il pane fresco… E anche se ste due saianacce hanno culo e tette con tutti i crismi… non ci tengo proprio di andarmi ad inpestare l’uccello … guzzatele mò tè … Tutte e due!… Anche con i miei baiocchi» gli girai le spalle e mi avviai per quel lungo e buio corridoio di Cento Trecento[4].

Prima di arrivare in strada sentii il Ciccio che mi urlava dietro.

«Ti saluto mèż amîgh… ôca môrta … Salutami bene il tuo fantasma… Carlo-Carlo…» e giù a ridere.

Mi appoggiai a una colonna e cercai le sigarette.

Attorno a me tornò a spirare quella strana aria.

«Hai fatto bene, Berto. Sta pur certo che lui-là , fra due giorni, quando andrà a pisciare vedrà le stelle»

«Ma te chi sei? Sei proprio Carlo?… Perché hai la sua voce?… in duv ît[5]? … Perché non ti vedo e non mi rispondi neppure? boia d’una mastella!»

Mi sarei messo a piangere dal nervoso!

Lasciai passare un paio di giorni poi telefonai al Ciccio al negozio di suo padre, merceria dove lavorava.

«Devi essere l’altro cretino. Sicuramente avrai l’uccello immerdato anche te» disse con poco riguardo suo padre quando capì chi era all’apparecchio. Rimasi di sasso e lasciai cadere la cornetta: Allora Carlo-Carlo esisteva davvero! Non era stata solo l’allucinazione di qualche cicchetto di troppo!

Sotto tutela

Alla fine dei conti sapere d’essere sotto tutela di un’entità soprannaturale mi dava coraggio ma anche un po’ d’incoscienza:

Attaccai briga con Gaetano, il trippaio Un susanello di centoventi chili. Ma non sentii nessuna voce che mi sconsigliasse a dargli dell’imbecille. Così presi un pappagno che mi lasciò ismito per dieci minuti.

E neppure quando scommisi che sarei venuto giù per i piroli di San Petronio con la bicicletta, non ci fu nessuna voce a dirmi che sarebbe finita con un scramazzolo sul marciapiede e al Rizzoli con un polso rotto.

Una sera al Sombrero … sala da ballo, lì, dietro a porta Lame, dove si ballava a luci spente, puntai una femmina che fra il lume e il chiaro mi sembrava avere due belle tette, Qui, invece, saltò fuori quella certa arietta e Carlo-Carlo con la sua voce da burdigone dentro a una zucca, mi disse: «dî sú, non vedi che avrà sessant’anni per gamba?»

E anche quando, andando in Stazione un omarello m’invitò a leggere un suo biglietto: «Mi scusi, sa dirmi dove trovo quest’indirizzo?». Prontamente, con l’arietta mi arrivò l’avvertimento: «Tira dritto. È un flober che fa delle proposte. Nel biglietto c’è scritto che ti dà cento scudi se ti fai fare un bocchino da lui».

Per questo e anche per altre situazioni simili, ne dedussi che Carlo-Carlo mi metteva in guardia esclusivamente per i pericoli del cazzo.

Una faccenda che cambiò in pochi giorni tutta la mia vita

Carlo-Carlo ebbe poi un importante ruolo in una faccenda che cambiò in pochi giorni tutta la mia vita.

Eravamo nell’estate del ’53 e mia madre con una sua amica, la Norma, avevano affittato una casetta a due passi dalla spiaggia di Miramare. Un appartamento su due piani a un buon prezzo.

Giusto quattro stanze. Due a disposizione di mia madre e altre due per la Norma, suo marito Gisto, che si faceva vedere al sabato per poi ripartire subito alla domenica pomeriggio. E per la Monica, la figlia: una ragazzella che sì e no aveva compiuto diciassette anni

Allora io avevo ventidue anni

A quel tempo, io di anni ne avevo ventidue e avevo anche una gran voglia di pippa.

Al contrario di tanti ragazzi della mia età non avevo ancora messo su la morosa. Non perché fossi di gusti difficili ma in casa con mamma non mi amancava proprio gnente : servito, riverito e massima libertà d’andare e venire.

Per cui, questa condizione privilegiata autorizzava amiche e ragazze che frequentavo a pensare che fosse ben lungi da me ogni impegno affettivo o sentimentale. Tanto che ben poche di queste erano invogliate ad abbandonarsi fra le mie braccia sperando che i loro languori mutassero la mia ostinazione. Atteggiamento che mi penalizzava nella ricerca di ciappini mordi e fuggi. Si era sparsa la voce che ero uno che se la tirava e nei festini privati cuccavo, sì e no qualche sbaciucchiamento, raramente mi veniva permesso di slanbiccare in una qualche braghetta e ancora più raramente avevo potuto metterlo in mano a qualcuna, questuando una pugnetta. Che dovevo poi malinconicamente autoprodurre in solitudine.

La vita cambiò un poco quando cominciai a lavorare e potei così permettermi qualche frequentazione al casino di via San Marcellino. Dove la signora Lisa, la tenutaria, nonché madre di un compagno di studi, mi faceva la marchetta alla metà del suo prezzo. Un’occasione che io sfruttavo quattro o cinque volte al mese. Tanto per tener calmo il billo e per aver qualcosa da raccontare ai colleghi «Hanno rinnovato il panorama in San Marcellino. È arrivata una biondina toscana con l’acca aspirata che ti aspira anche i maroni »

L’estate a Bologna è pesa

L’estate a Bologna è pesa, specie quando gli amici hanno preso su e chi al mare e chi in montagna o in campagna si fanno un paio di settimane in baracca e al fresco.

Io con due settimane di ferie pagate decisi di passarle al mare da mamma. Anche se dalla compagnia della sua amica, braghira patentata, e in particolare da sua figlia Monica, cinna sempre iper attiva, mi dovevo aspettare quindici giorni fra urla e casotto.

Sì, perché queste due erano sempre dietro a litigare urlando e offendendosi a vicenda. La ragazza, poi, che avevo visto crescere, come sua madre aveva visto crescere me, mi sarebbe stata sicuramente stra le palle per tutto il tempo cercando di ingaggiarmi in giochi futili: partite al calcio-balilla, rubamazzo o pingpong.

Il mio progetto invece era quello di intortare una qualche turista tedesca o su di là per fini chiaverecci.

“A quello sgorbio rompiballe di cinna e a sua madre faccio credere di essere lì per guarire da un esaurimento nervoso per l’eccesso di lavoro”. Pensai questa strategia e con una lettera spiegai in anticipo a mia madre che doveva spalleggiarmi.

Via del Sole 23

In via del Sole 23 arrivai di sabato sera che già erano le 7. E dopo un viaggio di quasi tre ore con la Topolino che era stata di mio padre, ero molto stanco.

Mamma che come prendingiro è l’asso di briscola, cominciò una pantomima per far capire a tutti che bisognava aver riguardo per le mie necessità di riposo.

Niente da fare con la Monica ch appena mi vide dimostrò tutta la sua devastante energia:

«Sai, domani in spiaggia comincia un torneo di pallavolo…. Ho fatto in modo che nella squadra del bagno tu abbia un ruolo. Ho raccontato che tu a Bologna giochi in una squadra di serie C. Loro ci hanno creduto e non vedono l’ora che tu cominci ad allenare la squadra»

«Monica – saltò su sua madre – cosa ti ho detto… Berto è qui per riposare e non può fare fatiche e sforzi» E mia madre mi fece subito bere una schifosa porcheria che lei giurò essere un antico rimedio per tutti i mali: dalla testa ai piedi.

Braghini fantasia, sandali e maglietta con il coccodrillo

La mattina dopo quando uscii dalla camera tutto tirato: calzoncini fantasia, sandali e maglietta col coccodrillo, la ragazzina mi squadrò dalla testa ai piedi per domandarmi con sarcasmo:

«Come stai?»

«Un po’ di mal di testa» e le feci un muso toccandomi. Abbassai gli occhiali neri e via in spiaggia. A vedere se c’era penna da puntare.

Due cosce da guzzatrice

Sotto gli ombrelloni c’era quel fitto di culi e tette in disfacimento come ogni fine settimana.

Con studiato sussiego mi adagiai sullo sdraio sotto l’ombrellone e aprii il libro che mi ero portato: Jean Paul Sartre, Morti senza tomba che non avrei mai letto.

Monica neanche fosse un cagnetto si era seduta accanto allo sdraio sulla sabbia e sopra di essa faceva dei ghirigori con le dita. Mi fece:

«Due bagni più in là hanno tutti i giornali di oggi. Vuoi che te ne vada a prendere?»

«Sì. Saresti molto carina?»

«Sai, per uno che pare sia dietro a tirare il calzino si fa questo ed altro…»

“cinna polpetta” pensai tra me e me ma feci finta di non aver capito:

«Prendimi bene Stadio e il Carlino. Aspetta che ti do la pilla…»

Con tutta calma mi tirai su gli occhiali da sole e cominciai a guardarmi intorno per capire se in giro ci fosse mai una qualche gnocca che mi facesse sburziglare l’uccello…

mo sócc’mel! Non mi ero accorto che proprio nell’ombrellone accanto c’era, tutta impegnata a leggere, una bionda con un bikini che metteva in risalto due belle poppe e cosce da montatora.

All’improvviso sentii un’arietta fresca che soffiava intorno a me e sempre la solita voce che mi sussurrava: «non fare il camillo. E’ Svizzera. E’ stata piantata dal moroso. E’ venuta qui da noi per consolarsi…»

«Ti ringrazio Carlo sei sempre un amico!»

La ragazza alzò gli occhi dal libro… – Un libro francese: Gustav Flobért, Madame Bovari – Le feci un mezzo sorriso. Lei lo restituì tutto intero.

Sentii ancora l’arietta e la voce di Carlo: «Ha la tua età. Si chiama Genevieve e parla benissimo l’italiano. Non dovresti far fatica»

Certo che avere un amico fantasma è una bella culata !

«Buongiorno Genevieve anch’io ho la passione per Flaubert» Con le informazioni che avevo avuto passai subito all’attacco.

«Come fate a conoscere il mio nome?» si meravigliò.

«Io so sempre tutto… incosa! »

«Siete forse della polizia?»

«Mo mé nå[6]»

«Come?»

«Volevo dire che non sono della polizia»

«Meno male. Io detesto gli sbirri»

«Voi siete svizzera ma parlate bene la mia lingua»

«Sapete anche da dove vengo! Siete sicuramente della polizia… Magari di quella scientifica… Sono gli unici simpatici»

«Non mi offendete. Ho tirato ad indovinare»

«Vi chiedo scusa… – guardò l’orologio -… peccato che debba tornare in albergo. È l’ora che mamma mi chiama da Génève .»

«Oggi siete qui?»

«Come no. Sono curiosa di capire come fate a sapere tutte quelle cose su di me. Au revoir Monsieur…?» e mi diede la mano.

«Alberto… Alberti.»

«Moi, Dupont… Geneviève Dupont. Adesso di me sapete proprio tutto» e se ne andò.

Ero sicuro di aver fatto colpo. Ero ottimista e se Carlo-Carlo avesse continuato a farsi vivo – se questo si può dire – ero sicuro di tirar su qualcosa. Non perché avessi bisogno di Carlo che mi indicasse dove o come infilarglielo, ma la sventolatina con cui sempre si annunciava stimolava la mia spregiudicatezza.

Fantasticare su come poteva evolversi quella situazione era inevitabile rimirando quel bel culo svizzero che stava andandosene scossando a ritmo di rumba. Ma questo ultimo particolare era solo un’aggiunta fantastica.

Con gioiosa eccitazione presi a fare delle capriole come un saltimbanco.

In quel momento tornò la Monica con i giornali e rimase di sasso nel vedere le mie evoluzioni:

«Mo soccia! Una mezza giornata di mare ti ha già guarito. Questo sì che è un miracolo!»

La malinconia della Monica

Appoggiò i giornali e tornò a sedersi ai piedi del mio sdraio ricominciando con i suoi malinconici ghirigori.

«Ogni tanto ci vuole un po’ di ginnastica» e mi misi a leggere Stadio.

Arrivarono poi mia madre e la Norma che chiacchierando facevano tanto baccano da disturbare la mia concentrazione fantastica tutta dedicata a un’ipotetica levata di mutande alla bella Geneviève.

Monica continuava a far disegni con la sabbia.

Mi tirai su per andare al bar a prendere un aperitivo.

«Vai al bar? – domandò Monica – Vengo anch’io»

Lei bevve una gazzosa io un vermouth rosso.

«Facciamo una partita al biliardino?» Mi chiese.

Le sorrisi ma le dissi che non ne avevo voglia. La mia testa era tutta da un’altra parte.

Monica a quel punto andò a fare il bagno.

Prima che la svizzera arrivi sotto l’ombrellone

Dopo pranzo per andare in spiaggia feci tutto un giro largo per vedere di incontrare Geneviève prima che arrivasse sotto l’ombrellone. La incrociai innanzi al bar. Un’occasione per offrirle un caffè. Non disse di no.

Appoggiati al banco cominciammo a chiacchierare in grande allegria. Un sorriso, una sigaretta, un poco di malizia, sembravamo vecchi amici. Non ci demmo più del voi, alla francese, ma del tu.

«Mi daresti un altra sigaretta?» e io pronto con il pacchetto delle Giubek.

Mentre cercavo l’accendino nelle tasche mi sentii abbracciare e una bocca che cercava la mia.

Però queste elvetiche!” fu il primo pensiero. Alzai gli occhi. Non era Geneviève ma Monica con tutti gli occhi pieni di lacrime.

Si staccò da me guardandomi con un’occhiata cattiva. E scappò via come una saetta.

Feci per fermarla ma fu più svelta di me.

Mi girai per cercare la svizzera ma anche questa dopo una scenata del genere era già fuori dal bar e stava andandosene con il culo dritto.

Feci per andarle dietro ma fu la voce di Carlo-Carlo a fermarmi.: «Vuoi farti ridere dietro?»

Nel bar non c’era nessuno e la barista era occupata ad amoreggiare con un soldato. Non si era accorta della scenetta e neppure che in tutta la confusione me ne ero andato senza pagare le consumazioni.

All’ombrellone Monica non c’era. Guardai verso il mare… era in acqua a mezza gamba.

La chiamai dalla riva.

Si girò e si bagnò la faccia. Restò ferma a guardare in qua e in là senza mai incrociare lo sguardo con il mio.

Andai verso di lei, ma quando le fui vicino e feci per dirle qualcosa mi fece una boccaccia e cominciò a correre verso la spiaggia, poi verso il paese.

Nel guardarla correre mi accorsi che contemplavo la sua figura con un occhio completamente diverso: aveva due gambe dritte e lunghe. Le cosce, piene e polpose, si attaccavano a due chiappe marmoree. Così erano anche le due pere che avevo avuto modo di sentire spingere contro il mio petto in quella stretta improvvisata di poco prima.

Mi sentii una merda per averla fin qui trattata come una bambina rompiballe e mi ripromisi di farmi perdonare.

«E’ proprio questo che devi fare – saltò fuori la voce di Carlo-Carlo che a modo suo si scusò per non avermi aperto gli occhi prima – Vedi, qui siamo in una faccenda che non è più questione di un bocchino o di una guzzata. Qui si va a toccare i sentimenti di una fanciulla che sono la prima cosa che i miei superiori vogliono proteggere. Quindi, comportati bene. Corrile pur dietro per far pace, ma che non ti passi per la mente, ne in sogno ne da sveglio di farle saltare il coperchino … Io adesso non so esattamente cosa consigliarti. Debbo parlarne con i miei superiori. Poi ti dirò»

«Carlo… chi sono i tuoi superiori?» urlai inutilmente.

Ma Carlo-Carlo non mi rispose ne allora ne mai.

Inopportuna erezione

Andai a casa. Monica s’era chiusa in camera «…a studiare. Mi ha detto che non voleva vedere nessuno» disse sua madre.

Mi misi a leggere Stadio in giardino. Innanzi alla porta.

Verso sera Monica scese. Si era tirata in casseruola: sottanina a pieghe, bianca come la maglia. Così sottile e attillata che lasciava ben trasparire le rosee tette con i loro capezzoli che simmetricamente erano volti all’esterno di quell’adolescente corpo. Aveva indossato calze di seta con una cucitura scura nel mezzo. Chiudevano l’intappatura scarpe con tacco alto.

Non mi sarei certo immaginato una trasformazione così repentina. Deglutii cercando di dominare un’inopportuna erezione, disdicevole assai in quanto indossavo solo il costume da bagno che mostrava, impenitente! il relativo gonfiore. Pur nella bizzarria di quella mise così impropria per la sua età, debbo dire ch’era uno spettacolo che non poteva lasciare indifferenti.

Sicuramente avrei dovuto contare sul mio self control per tenere a bada questa ragazzina di neppure diciassette anni che voleva crescere in fretta.

Passandomi innanzi mi schernì con una pernacchia al rallentatore per poi dirigersi al cancelletto ancheggiando vistosamente.

“Era proprio una gran figa!”

Indifferente non rimase neppure la Norma, sua madre:

«Ascolta, tè, dove pensi di andare così inbaccellata?»

«A fare un giro in paese… Dal gelataio. A quest’ora si trovano sempre lì la Gloria e le altre amiche della palla-volo…»

«Dal gelataio puoi andarci, ma non messa così, come una puttana»

«Ma dai, mamma, sono vestita come ti vesti tu quando il venerdì vai in Piazza a Bologna!»

Da qui cominciò una caciara tra madre e figlia con certi insulti da fare arrossire un facchino della Saragozza[7]. Volarono epiteti da ambo le parti: brutta vacca, troia, busona, persino rotta in culo e bocchinaia. Spaziando anche in «quel cornone di mio padre»

Il tutto si concluse con il tonfo stizzito di una porta che si chiudeva.

La Norma mostrava soddisfazione per aver dimostrato di essere in grado di tenere a freno i capricci della ragazza.

La Monica, ferita nel suo orgoglio piangeva nella sua stanza.

Io non riuscivo più a togliermi dagli occhi tutta quella sensualità che mi era stata sbattuta sul grugno da quella adolescente maggiorata.

Una sandrona davanti ad Abbe Lane

Andammo a tavola tutti assieme. A fine cena provai di dire:

«Io stasera andrei anche a fare quattro salti al dancing… Vuoi venire con me Monica?»

«mo mè no. Io sto qui a studiare per l’esame di riparazione» Mi fece un altro muso con la lingua e girato il culo, scomparve al piano di sopra.

«Quasi quasi vengo mè … – disse sua madre – … vado matta per il vughi-bughi[8]»

“Speriamo ben di no” pensai.

Mi misi in giacca e cravatta, come si deve per il dancing, ma quando fui in strada cambiai direzione e andai in spiaggia.

Era una sera chiara, con una bella luna. Seduto su un moscone accesi una sigaretta. Il rumore delle onde era un tutt’uno con la musica della sala da ballo che arrivava da lontano.

Il riflesso della luna disegnava una specie di corridoio argentato sopra l’acqua.

Fissavo quel luccichio, che mi avvinceva come fossi ipnotizzato.

Dal mare, là dove potevano vedere i miei occhi, sbucò una sagoma che prese a venire verso di me camminando su quella tremolante striscia d’argento.

Più si avvicinava più mi sembrava di mia conoscenza: una figura slanciata… il passo lungo e deciso… il costume giallo… una mossa di culo che avevo appena imparato a riconoscere.

Era lei, la Monica. Non mi faceva più musi con la lingua. Stavolta mi fece un bel sorriso e senza dir che, slacciò le bretelle del suo costume. Saltarono fuori le sue belle prugne. Mi si avvicinò e mi trovai con la faccia stretta fra quelle calde poppe che profumavano di mare.

Cominciai a baciargliele e a succhiarne i capezzoli. Lei si mise in ginocchio per essere più comoda a fare lingua-in-bocca. Il costume era sceso di un altro poco e mi trovai contro le labbra l’ombelico. Dall’orlo del costume spuntavano neri riccioli.

Tirai giù tutto il costume e, bella più che mai saltò fuori la gemma.

Con prepotenza tirai fuori l’uccello e lo impuntai fra la sua calda crepa.

A quel punto mi venne di guardare il cielo: la luna si era spenta… la striscia d’argento sopra il mare era sparita e così anche Monica… Inoltre una luce molto forte mi abbacinava.

Erano due guardiani che ridevano di me:

«Balla o pensieri d’amore?… O tutti e due?» poi una bella risata.

Un po’ intirizzito per l’umidità mi avviai a casa.

«Visto… che anche con l’immaginazione non ce la puoi fare a guzzarla senza il nostro permesso… stà mò tranquillo e porta pazienza!» Era saltato fuori Carlo-Carlo, che io, innervosito, con poco rispetto, mandai a farsi dare nel culo.

A casa, volendo non pensare a Monica mi feci una sana pugnetta guardando Abbe Lane in foto sulla copertina di un rotocalco.

Una strizzata d’occhio malandrina

Colazione in giardino tutti assieme: Monica sembrava in buona tanto che dopo il solito muso mi sorrise aggiungendo:

«Eh, ma che occhi sbattuti che hai stamattina. Non sarai mica impastato di…»

«Beh, Monica, cosa ti piglia… Parli come un birocciaio» il materno rimbrotto.

Finita la colazione decidemmo di andare tutti al mercato. Monica no: «… resto a studiare.»

«Fai proprio bene» disse la Norma più che contenta di aver così campo libero a civettare con il capitano d’aviazione dell’ombrellone dietro.

Monica mi elargì un’altra delle sue smorfie, stavolta però accompagnata da un sorriso e da una malandrina strizzata d’occhio. Gesto che mi fece pensare.

Tanto che restai come un ismito lì in mezzo al cortile: “Vado o resto?”

«Forza, sgaggiati se no per un altro autobus c’è da aspettare quasi un’ora…» era mamma. Santa donna! Ha sempre fretta.

«Sì, sì. Vengo… vengo… Credo di aver dimenticato qualcosa in camera»

L’autobus si fece vedere in fondo al viale e io, rimescolando in ogni tasca presi a tirare moccoli:

«Lo dicevo io che avevo dimenticato qualcosa… Bisogna che torni a prenderlo»

«Ma è una cosa così importante?»

«E’ una telefonata che mi sono portato dall’ufficio e che bisogna che faccia proprio stamattina»

«Chi non ha testa ha gambe!»

«Ci vediamo più tardi in spiaggia» e mamma salì su quel trabiccolo che si avviò con tutta la sua puzza di nafta.

Feci un profondo respiro. Meglio ossigenare il cervello prima di impegnarlo nella discussione che volevo affrontare.

“Voglio proprio vedere cos’ha da dire questa cinna dispettosa e spregiudicata”

Quando feci per salire alle stanze sentii addosso quel fresco vento che ben conoscevo… «Mi raccomando. Adopera giudizio. Ricordati che non posso darti la dispensa per farle saltare il coperchino»

«Cosa vai mai a pensare, diffidente che non sei altro»

«Io debbo sempre andare oltre col pensiero»

«E se il coperchino non ci fosse più?… Non si può mai sapere… Me l’hai insegnato tu da vivo!»

Ma pure sta volta Carlo-Carlo non mi rispose.

Debbo dirti una cosa

«Monica… Monica…» chiamai

«Sono qui nella mia stanza… Cosa vuoi?»

«Ho da dirti una cosa»

«Se proprio devi dirmela vieni su. Non c’è dubbio che io venga lì. Fai in svelto, però che debbo studiare» Fu una risposta così indisponente che non dava speranza. Comunque salii.

La trovai sdraiata nel suo giaciglio coperta da un leggero lenzuolo.

Mise a terra il libro che, forse, stava leggendo e mi guardò seria:

«Com’è che non sei andato al mercato con la famiglia?»

«Perché ho un debito con te»

«Un debito?»

Senza che glielo domandassi si spostò per farmi posto sulla sponda del letto.

Mi sedetti lì.

«Si, il bacio che mi hai dato ieri al bar»

«Ah… quando facevi l’asino con quella brutta squinzia. Guarda che è stata una cosa che m’è venuta d’istinto. micca per me, sai… L’ho fatto per la nostra amicizia… Per tutti gli anni che ci conosciamo… Per toglierti d’intorno quella piattola che… forse ti avrà… magari… ti avrà scroccato qualche aperitivo.. Io lo so come sono fatte certe donne… Sicuramente avrà saputo da qualcuno che sei un banchiere e allora…»

Aveva chiuso gli occhi e parlava disordinatamente in fretta e con ansia come una macchinetta.

«Ascolta e guardami – aprì gli occhi pieni di lacrime – Vuoi pareggiare i conti?… Scambierei il tuo bacio con uno dei miei… Sei contenta se facciamo un baratto così?»

«fà mò. quello che ti pare… Anche mia madre… l’hai sentita anche tu ieri sera. È convinta che io sia una vacca» e con teatrale aria rassegnata richiuse gli occhi lasciando le labbra leggermente aperte, che mostravano un accurato maquillage di rossetto. Una maniera un po’ strampalata per studiare la geografia!

A quel punto mi sentii autorizzato ad approfittare della sua rassegnata arrendevolezza.

Con delicatezza appoggiai la bocca sulla sua e diedi alle sue labbra qualche colpetto con la punta della lingua.

Tempesta passionale

Si scatenò una tempesta: mi prese la testa per tenerla stretta contro la sua faccia. Le sue labbra cominciarono a muoversi attorno alla mia lingua. Passammo così dieci minuti… senza staccarci… Senza dir beo… Incatenati alla nostra passione.

Le nostre lingue con la loro forsennata danza erano il trait d’union del desiderio che ci possedeva. Mentre alle dita era demandato il compito di iniziare a far la conoscenza con l’altrui corpo.

Quando prendemmo fiato cominciammo a ridere con tutto un altro spirito. Dal volto di lei erano scomparsi broncio ed espressioni malinconiche.

Trasse un lungo sospiro dicendo con beata sincerità:

«Non ci crederai ma è più di un anno che aspettavo questo momento! Da quando con tua mamma veniste a pranzo da noi»

Tornò a cercare la mia bocca e io non potei far altro che rimettere in moto quella manfrina di baci sul collo e dietro alle orecchie che la ‘facean tutta vibrar’, come avrebbe scritto un poeta. Peccato che io sia solo un ragioniere!

Con tutto quello smanezzo cadde l’inopportuno lenzuolo che forse per pudore si era tirato sopra mentre salivo da lei. Mi si presentò così, nuda dalla cinta in su, con i suoi erti capezzoli che fibrillavano.

Dalla finestra spalancata un raggio di sole approfittando di uno spiraglio fra le tende li illuminava.

Uno sguardo e mi tuffai su quelle tette con la bocca. Gliele baciai… Ingordo più che mai succhiai a lungo le loro noccioline mentre le accarezzavo i fianchi e il ventre.

«Fermati per piacere» sospirò e io, chissà perché, pensai che dovesse andare a pisciare e mi fermai.

Era invece perché voleva essere lei a condurre il gioco.

Mi tolse la maglia e prese a baciarmi, su e giù, dall’ombelico ai miei piccoli capezzoli eccitandosi nello sfregarci contro i suoi.

Fu mentre si crogiolava in questo trastullo che le chiesi:

«dî só Monica… sei andata a letto mezza nuda sicura che sarei venuto su da te?»

Abbassò lo sguardo e ridendo con malizia:

«No, ma quando ho sentito che venivi su per le scale mi sono cavata il reggipetto, l’ho cacciato sotto il letto, coprendomi solo con il lenzuolo. Chissà? mi son detta» Rise contenta della sua intuizione continuando a baciarmi il collo.

Poi si fermò. Mi guardò con gli occhi socchiusi. Aveva gli zigomi gonfi e color del fuoco. Si strinse ancora più a me per dirmi:

«Non hai idea di quanti ditalini mi sono fatta pensando a te!»

D’istinto calai i braghini per mostrarle chi, da quel momento in poi, avrebbe preso a mano quel servizio. Con grande sollievo del billo che iniziava ad agitarsi e che si presentò eretto e possente mostrando con orgoglio la vivacità della cappella.

Sempre quel raggio di sole, certamente manovrato da qualcuno con spudorata lubricità, prese ad illuminare l’orgoglio del mio basso ventre anche con inimmaginabili cromatismi.

Un’apoteosi del tutto inaspettata. La Cocca rimase a bocca aperta: «Mo se è bello! Che meraviglia!» e fece la mossa di prenderlo in mano, subito repressa, nonostante gli accattivanti riflessi di luci colorate che ne esaltavano le forme. Soprattutto quelle della cappella. Come che fosse la scena di un musical di Broadway!

Intorno a me solo una follata d’aria fresca e un bisbiglio: «Vésst che ròba?»

Si tolse la braghetta

la ròba mi si parò innanzi agli occhi quando… lei si alzò e dandomi le spalle si tolse la brutta braghetta. Una di quelle ascellari, di tela spessa e di foggia da cinna.

Accidenti, un culetto che era un biscottino.

«Una delizia che si può assaporare solo con grazia e armonia!» e questo me lo disse in tutta confidenza Carlo-Carlo che nella sua invisibilità era in quel momento sulla scena.

Non potrò mai più scordare l’insieme di quelle mosse, quasi una danza: il levarsi dal letto con uno scatto per porsi innanzi a me volgendomi con studiato pudore la schiena. L’armoniosa flessione per accompagnare a basso l’intruso indumento e i talloni, prima uno, poi l’altro che si sollevavano di pochi centimetri per liberarsene definitivamente.

L’abbracciai e mi allungai contro quel bel di dietro sfregandole l’uccello fra le culatte. La baciavo sul collo stringendole dolcemente le rigogliose poppe. Di lingua, poi, scesi piano piano, giù per il filone della vita, fino al sacro osso, lì dove si apre la valle del culo… Che a lei non parve vero d’aprire al traffico!

Con la svarzura e l’agilità d’un gatto innamorato, dopo alcune leccate al gentile mi presentai al cospetto del suo fighino, che per il trattamento che avevo fatto ai suoi dintorni, era caldo e ben bagnato. Inequivocabilmente desideroso di venir preso in considerazione.

Nell’osservare le sue dita che sponte trastullavano la clitoride mi venne da esclamare «dio mè mamma, s’l’é bèla! » e restai in adorazione di quel tabernacolo, che, in tutta sincerità, era la prima volta che potevo ammirare, così… a un palmo dal naso.

Un caramellone strampalato

Lì davanti a quella visione ebbi un attimo di commozione e mi venne da sternutire. Come un lampo fu nella mia mente il più nero dei pensieri: “Non sarò micca allergico alla gnocca?

Rigettai ogni cruccio e giocherellando con i lucidi riccioli cresciuti lì nei dintorni presi ad accarezzare i contorni di quella primizia.

Nel rimirare quella bella rosa tutta aperta e tanto desiderosa d’iniziare il gioco del piacere, mi venne uno scrupolo e, rivolto a Carlo-Carlo dissi ad alta voce:

«Posso leccarla?»

La Monica, mezza ismita da come l’avevano conciata baci e carezze pensò che il permesso fosse richiesto a lei e sospirando: «Fai quello che vuoi… Però fallo!»

Lì per lì ebbi la percezione che lei già ben sapesse come ci si comportava in questo genere di trastullo ma tanto era l’entusiasmo che scacciai alcune volgari congetture.

In fondo anch’io ero un coperchino, mai pipeto.

Non c’erano più scuse innanzi a quelle invitanti cosce allargate, la bella prugna protesa verso la mia bocca e le dita di lei che pistolavano tette e grilletto, passai dall’ammirazione all’azione.

Intanto anche il Carlo-Carlo sciolse le mie remore: «Una volta per tutte… Quello che non puoi, è farle saltare il coperchino! Tutto il resto va bene: ditalini… spagnole… leccate. Se te lo permette puoi anche infilarglielo nel culo!»

Trovai sgarbata e ipocrita quella risposta: “Bella moralità!” e mi misi a tittare fra le cosce della dolce Momò. Come la chiamano le amiche.

Mani sotto le sue chiappe, le sollevai il bacino e via, in cadrîga.

Qui, lei, sempre pistolandosi il grilletto, cominciò a fare scatti menando il bacino su e giù.

Sempre saldo con le mani alle natiche appoggiai la bocca alle grandi labbra e usai la lingua a mò di cazzo penetrandola, cercando di andare sempre più dentro anche smascellandomi. Ogni volta, nel ritrarre la mia appendice ebbi sempre l’accortezza di dare una leccata a lingua aperta nella parte superiore della crepa. Proprio lì dove lei trastullava il bigattino.

Dagli afflati mi ero accorto che ci teneva tanto.

«dài mò Berto, ficcati a testa bassa sul grilletto… Che è lì che lei qui sguazza…»

Carlo-Carlo non perse quell’occasione per darmi un altro dei suoi utili consigli. E così mi dedicai a dar di lingua alla clito. Facendo una gran figura.

«Mo boia d’un mondo ladro, se ci sai fare!»

Quel bel fighino prese a sputacchiare. Schizzi e fragranze irrorarono il mio volto inebriandomi.

Lei, nel momento clou del piacere serrò con forza la mia testa fra le cosce obnubilando il mio udito. Nonostante ciò potei sentire tutto il repertorio che lei nell’agitarsi per il godimento sciorinava con flebili ansimi di gioia. Una giaculatoria fatta di devozione religiosa, oscenità, dichiarazioni d’amore, invocazioni: «Dio mio che roba!… Mi fai morire… Mi fai morire… Mamma, che sguazzino!… Madonnina- Madonnina fa che duri fino a domattina! Dai… dai… leccami ancora il culo che poi ti faccio un caramellone stranpalato…» E via così.

Dopo alcune contrazioni si allungò tutta con un profondo sospirò. Pareva andata in catalessi.

Qualche smorfia accompagnò il dissolversi del piacere, poi la Momò si stiracchiò con un trionfale grido di soddisfazione dallo squillante tono acuto tutto adolescenziale: «mo soccia, che bello!» Un profondo sospiro, una porzione di lingua-in-bocca con me e, posizionatasi in galone si addormentò. Sul suo volto rimase un solare alone di beatitudine.

Era finito così il primo round di ocadura-gnocamojja.

Conclusosi il primo round di ocadura-gnocamojja…

Da poco meno di un’ora era iniziata la trasformazione del mio stato sessuale. Fatto, fino ad allora solo di scorrerie al casino. Quello di via San Marcellino. Dove la signora Lisa, la tenutaria, mi accoglieva sempre con un sorriso bonario. Sicuramente per i favori ricevuti a suo tempo dal mio bancario padre – credito o mutui, chissà? per la sua umanitaria attività.

La pulzella del suo harem alla quale mi affidava era sempre una di quelle meno consumate dalla professione e più in sintonia con la mia giovane età. E chiudeva un occhio se le sue ragazze instauravano con me un rapporto di convivialità che, a volte, nel loro giorno di libertà varcava la porta del casino.

E proprio nella settimana prima di quella mia vacanza, si era consumato un episodio che aveva lasciato segno e, non era un caso che si fosse ravvivato proprio mentre osservavo l’idilliaco cubiare di questa ragazzina che finalmente aveva assaggiato i primi piaceri dell’amore.

La più stimolante professione del mondo

In quei giorni, al 5 di San Marcellino, la più bella era una certa Luciana. Una mora giunta a Bologna da un isolato paesino dell’Appennino Toscano per sfuggire alla monotonia del piccolo villaggio. Qui da noi era finita fra le grinfie di un tal Gustavo, scafato ruffiano che l’aveva convinta ad abbracciare «la più stimolante professione del mondo – dove – avrai modo di conoscere gente importante. E vuoi mai che, carina come sei, non trovi nel giro di poche settimane il figlio di qualche industriale o onorevole che ti traghetta in quel mondo che per ora hai conosciuto solo su Grand Hotel»

Così me l’aveva raccontata lei mentre mi riprendevo dalla intensa marchetta che avevamo consumato assieme.

Era un martedì, giorno pari in cui chi ce l’ha va a morosa. Così, privo della balla mi era rimasto solo uno sguazzino a pagamento per concludere la giornata.

Da assiduo del bordello ero abituato allo stile 3G delle scaglie (guzza, Godi, Grazie. Il ‘grazie’ era di auspicio alla mancia) che tirava ad esaurire il ciappino nel minor tempo possibile poi… «A chi tocca adesso? Vieni mò su che ti faccio un lavorino di tutto rispetto»

Luciana invece aveva voluto pure annodarmi la cravatta: «Mi piace farlo ma solo a chi mi ha fatto godere… – e aveva aggiunto, sottovoce un po’ arrossendo – Ne avevo tanto bisogno! – Poi, di nuovo con la sua verve toscana – Il mio l’è un nodo speciale. Porta fortuna»

Nelle sue parole vi era una punta di disperazione, così, d’istinto, l’avevo stretta forte e baciata. Anche se sapevo che Carlo-Carlo non avrebbe approvato: «Al casino brisa fare lingua-in-bocca con le scaglie: fai la figura del mai pipeto. Lei poi lo racconta alle altre puttane e nel giro d’una settimana l’impara anche la portinaia di dove stai»

Dopo il bacio lei si era messa a sciogliere nuovamente il nodo alla cravatta dicendo:

«Vuoi fare la doppia? Questa però la offro io»

Ne era saltata fuori una notevole scopata. Sicuramente la più bella che avessi mai fatto a casino. A dire il vero, io, fuori di lì non avevo ancora battuto un chiodo.

Avevamo chiacchierato da vecchi amici fino allo scadere del tempo concesso alla doppia. Alla cassa avrei voluto pagare anche quell’extra ma dietro di me si era materializzata Luciana:

«Le sue due è tutta roba mia. Me le trattieni dalla settimana» Avevamo discusso ma non ero riuscito a smuoverla.

«Vorrà dire che ti invito a cena nel tuo ‘giorno di libertà’. Quand’è?»

«Comincia fra dieci minuti. Sono già le undici e trequarti» e in effetti non era più in nude look come imponeva la Casa, ma vestiva un elegante tailleur avana: camicia bianca e calze di seta chiara. «L’è l’unico sfizio che mi sono concesso da quando sono a Bologna»

«Se posso accompagnarti nella notte bolognese…» avevo proposto.

Era molto bella quando rideva

A mezzanotte e un quarto eravamo alla Birreria Bologna[9] innanzi a un piatto di tagliatelle che gridavano: «Magnum![10]»

«Oh, questa sì che è roba bona – aveva detto dopo la prima forchettata – Mica quella sbobba che ci propina ogni giorno la Signora»

Nei casini, si sa, le lavoratrici vivono in una sorta di regime conventuale. Per cui è normale che la tenutaria, per risparmiare, si improvvisi cuoca.

Dopo di che non si era più parlato del suo lavoro.

«Non vado mai, sai, fuori, così nella notte quando finisco il turno Ma è tanto bello quello che abbiamo fatto – aveva detto con un po’ di pudore – che ho voluto provare a rimorchiarti. Non credevo di riuscirci. Ce l’ho fatta e sono la ragazza più felice del mondo» aveva riso sonoramente richiamando verso di noi l’attenzione degli altri avventori. Era molto bella quando rideva.

«La Signora mi ha detto che sei un ‘banchiere’, posso chiederti un consiglio?»

Mi aveva parlato dei suoi progetti futuri. Pensava di lasciare il casino allo scadere del contratto. Ancora tre mesi e sarebbe stata libera da ogni impegno. Effettivamente quella professione le aveva permesso di mettere da parte un discreto gruzzolo. Suo obiettivo era quello di comperarsi un piccolo appartamento qui e far venire dal paesello il moroso. Avrebbe trovato sicuramente un lavoro: «L’è bravo il ragazzo. Sa far di tutto. Non dovrebbe far fatica a trovarne uno. Io sono anche disponibile ad andare a servizio presso una famiglia»

Il perfido ruffiano che l’aveva introdotta nel giro dei casini, non mancava ogni sabato di scroccarle una marchetta agratis e avendo saputo, in una di queste occasioni, che lei aveva qualche risparmio, si era proposto di gestirglieli: «Se li dai a me te li investo in operazioni particolari che in pochi mesi te li raddoppiano. Se poi te ne mancassero per comprare il vostro nido d’amore posso trovarti io un galantuomo che te li può prestare»

«Per carità! I tuoi baiocchi tieniteli stretti. Li hai in banca o alla posta?»

«Macché, a te lo posso dire, li ho in una busta di stoffa inchiodata dietro all’armadio nella mia stanza»

«Ma tu sei matta!»

«Qui non conoscevo ancora nessuno. Ho scritto a un mio zio ragioniere al comune di Pontassieve che mi ha detto di tenerli nel materasso perché i banchieri sono tutti ladri. Scusa ma l’ha detto lui che è comunista-comunista»

E qui mi ero comportato da perfetto bancario «Fai mò che domattina vieni in banca da me con la grana che ti faccio aprire un libretto a tuo nome – avevo rimarcato – solo a tuo nome. Puoi anche, se vuoi, farti calcolare un’ipotesi di mutuo. Così sarai in grado di pianificare il tuo futuro» Dissi proprio così: sic.

«Sei un tesoro» si era sporta verso di me per farmi una carezza e darmi un bacio sulla guancia. Era arrivata la zuppa inglese.

Uno sgarbo a Poldo?

Avevamo pensato di prenderci un caffè al Nazionale sotto le Due Torri.

Per tutta la via Ugo Bassi e quella Rizzoli ci eravamo tenuti mano nella mano come due consolidati fidanzati. Lei aveva dato sfogo a tanta allegria: rideva, mi aveva più volte baciato e si era messa pure a canticchiare una canzone. E’ maledettamente stonata.

Mi aveva anche raccontato la sua storia con Poldo, il moroso. Lui sapeva fare un’infinità di lavori ed erano tanti i paesani che lo chiamavano ad aggiustare questo e quello e questo le suscitava un po’ di gelosia «… l’è sempre nelle case del paese e lì resta da solo con le spose. E Poldo l’è un bel giovane!»

AI Nazionale avevamo bevuto il caffè poi era venuto il momento di decidere come concludere la notte.

«Ma, se io e te passassimo la notte assieme sarebbe uno sgarbo a Poldo?»

Aveva fatto spallucce e mi aveva baciato. Era stata di poche parole «Come e dove?»

Al Nazionale i pochi avventori notturni mi avevano guardato intensamente, forse con invidia. Luciana è veramente un tronco di figa!

“Mamma dorme – avevo pensato – e non si è mai curata di quello che succede nella mia stanza che, oltretutto, è al piano di sopra”

«… a casa mia» le avevo risposto.

«Nel tuo letto?»

«ói. Se ti fa schifo possiamo stenderci sul tappeto. È un antico tappeto persiano. Però è sicuramente più comodo il letto»

Il Notturno dall’Italia

Mamma Veronica non stava dormendo. Forse preoccupata per il mio ritardo stava leggendo in salotto ascoltando il Notturno dall’Italia[11]. Le avevo presentato Luciana come una mia ex compagna di classe che ora viveva in Toscana. Era qualche giorno a Bologna per… Mi aveva chiesto una pensione di buon comando e micca la potevo mandare alla Pensione Fusari[12]. Oltretutto non avevamo mai avuto nessuno nella stanza degli ospiti.

La mamma aveva capito benissimo ma le andava bene così.

Allo stesso piano della mia camera c’era la stanza per gli ospiti. Sempre in ordine per ogni evenienza. E lo sarebbe rimasta pure quella notte.

Quel buon odore di femmina porca

Luciana si era coricata con la sottoveste. Sotto le lenzuola ci eravamo dati qualche bacio e avevamo cominciato a raccontarci qualcosa ognuno di sé. Ogni tanto una carezza, un abbraccio.

Radio Capodistria, uno dopo l’altro, mandava in onda gli ultimi successi di Nat King Cole. Cazzo! L’atmosfera nella stanza illanguidiva di attimo in attimo. Calde le sue cosce contro le mie. I boxer erano diventati fastidiosi. Li avevo sfilati. Lei mi era sembrato non farci molto caso. Ora contro il suo ventre non stava più strusciando stoffa animata dall’anima irrequieta che copriva. «Scotta – aveva detto – Ne sento tanti ogni giorno ma il tuo ha la febbre. Stai bene?»

«Forse fra un po’. Ora sto soffrendo»

«Oh no. Non farlo. Non ne vale la pena. Non c’è futuro»

«Non me la dai? »

«Oh quella sì. Sono sicura anche che ti piacerà tanto»

«E allora?»

«E’ l’amore che non posso darti»

«Come vorresti darmela?» e intanto avevo violato l’elastico dello slip e accarezzavo le labbra della vulva. Era impaciugata. Anche se lei si dimostrava ben distante da quei segnali di godimento che stavano montando in lei. Pareva che volesse solo parlare… parlare… parlare.

«Voglio dartela così come te l’ho data oggi nella seconda: senza amore ma con gioia»

Il Pino Silvestre Vidal di cui era impregnata mi stava stordendo. Se non l’avesse messo avrebbe prevalso quel buon odore di femmina porca. Quello che da solo te lo drizza.

«Ma io stasera non ero venuto per trovare l’amore»

«E allora cosa ti aspettavi?»

Ero imbarazzato per questo suo sfogo che sembrava volermi solo colpevolizzare. Avevo emesso solo balbettii e tolto le dita dalla sua parpaglia.

«Volevo solo inebriarmi di quel buon odore di femmina porca che si annusa lì da voi»

«Eh sì. lì, quando siamo tutte in attività si sente forte… Ma ci sei riuscito a inebriarti?»

«In un certo senso sì, ma adesso penso che sto per complicarmi la vita»

«Non te lo permetterò. Complicheresti anche la mia»

«Tu mi sembri molto più forte di quel mezzo-coperchino che sono io» mi ero staccato da lei e mi ero messo a riflettere seduto sulla sponda del letto. Dove subito era venuta a sedersi anche lei.

«Non fuggire. Io, oggi, dalla doppia in poi ti amo. La semplice mi aveva solo stuzzicato la passera. la doppia mi ha confermato che potevo amarti. Così com’è poi proseguita la serata adesso posso gridarlo al mondo: Ragioniere Alberto Alberti, io ti amo! Però domani l’altro il primo pistolino che maneggerò per lavoro cancellerà tutta la felicità di cui ho goduto oggi e con essa anche ogni sentimento. Succede così anche quando faccio una scappata al mio paese dove tengo tutto l’amore che possiedo: il giorno dopo quando il primo cazzo entra in me rovina tutta la mia gioia. Bado solo che costui non mi faccia del male e che lasci un po’ di mancia nel cestino»

Aveva tolto la sottoveste. Una carezza al bigolo che era erto e speranzoso ed era tornata sotto le lenzuola. Prima si era sfilata lo slip e, ridacchiando, lo aveva appeso al turgido membro come che fosse uno stendino.

Un complicato casino

Dalla borsetta aveva . preso un preservativo e me lo aveva infilato

Ero scivolato in lei: calda ed avvolgente. Vogliosa e scoppiettante si era dimenata con foga sopra e sotto di me dove si era goduta un lungo orgasmo.

«E con questa con te sono tre. Il numero perfetto. Sono sicura che mi porterai fortuna. Ho fatto proprio bene a dirti che ti amo… – poi esternando una sorta di pudore, con lo sguardo abbassato – Ogni volta che il Poldo ne fa tre il giorno dopo mi è sempre capitato qualcosa di insolito e di piacevole. Pensa che il lunedì di Pasqua che i miei erano andati in gita a Venezia il Poldo venne in me cinque volte. Non solo non rimasi in cinta, ma il giorno dopo Babbo si era accorto di aver fatto 13 alla SISAL[13]» Lo aveva detto mentre mi aveva sfilato il preservativo e asciugato l’uccello con un suo fazzoletto ricamato «Questo non lo lavo e quando torno a casa lo metto nella cassetta dei ricordi che tengo in granaio»

«Ora che mi ami continuerai ad amare anche il Poldo?»

«E perché non dovrei? Lui mentre viene grida sempre a ripetizione: “Lù, ti amo” e molto spesso ne fa tre. Vedi fra me e lui non può esserci di mezzo la gelosia. E’ giusto che ognuno si comporti come meglio crede. Quando siamo assieme non trombiamo solo. Ci facciamo anche molta compagnia, ma se uno vuole staccarsi per un certo periodo può andarsene ma può anche tornare. Senza rimproveri, bugie e perdoni. Il mio Poldo ha voluto arruolarsi in marina ed è stato lontano da me per ben due anni. Avrà sicuramente trombato in ogni casino del Mediterraneo e magari avrà lasciato in giro anche qualche figlio. Chissà? Io sto contraccambiando con questi due anni, qui a far fortuna. Nessuno dei due dubita che torneremo assieme. Nessuno dei due dubita dell’amore dell’altro.

«Che casino complicato!» ma l’avevo tenuto per me.

Ci eravamo poi addormentati uno nelle braccia dell’altro.

Vado a pisciare e torno a trombare

Prima che l’orologio parigino, regalo dello zio Giorgio, intonasse la Marsigliese furono alcuni baci di Luciana a svegliarmi.

«Sei abituata a svegliarti presto»

«Oh sì, alle sei la casa viene invasa da chi pulisce e disinfetta ogni ambiente. Io riordino la mia stanza poi la lascio all’acida creolina e ai deodoranti che copriranno quell’acre odore»

Nel muoversi nel letto era probabile urtare la consueta erezione mattutina.

«Vuoi scopare?» in quella secca domanda avevo percepito lo stile duro del linguaggio acquisito con la professione. E mi era venuto spontaneo adeguare la risposta a questo crudo parlare.

«Vado a pisciare e torno a trombare» Il medesimo rito aveva celebrato anche lei.

Avevo dimenticato di vestire il goldone

Ci eravamo presi in piedi.

Fuori dal casino la scopata aveva tutto un altro sapore. Avevo deliziato anche le mie dita nella sua sorca e le sue poppe succhiandone avidamente i capezzoli. Ha due tette della madonna!

Avevamo poi concluso nel letto.

La sua figa era molto più calda di come l’avevo gustata al casino e dava al billo certe striccate tanto tenaci da scatenare in me uno scramlizzo ad ogni fondata.

«Tiralo fuori… tiralo fuori… Non voglio rimanere incinta. Mi rovinerebbe!» Avevo dimenticato di vestire il goldone.

Diligentemente l’avevo estratto e spruzzato tutto sulla sua pancia.

«Prima d’ora non ho mai scopato la mattina presto» avevo confessato.

Aveva sorriso «La Signora mi aveva detto che probabilmente eri un mezzo coperchino»

Una spagnola fatta ad arte

Ero andato al lavoro soprattutto per risolvere i problemi di Luciana che mi aveva accompagnato

Avevo preso una giornata di ferie e proposto alla ragazza di stare assieme fino a quando avrebbe dovuto rientrare.

«Dove pensi di passare questa nostra giornata?» indicai la Topolino parcheggiata:

«In giro per il mondo»: Roncrio, Paderno, l’Osservanza, Gaibola, Casaglia …»

Verso l’una, crescentine, Albana, coppa e mortadella in una piola un po’ prima di San Luca.

Un lungo pisolino sdraiati sotto un rusticano a Sabbiuno, dove tirava quel venticello che mi aveva fatto tirare l’uccello (come ebbe ad interpretare il poeta che è in me). Non avevo neppure dovuto accennare a quanto mi frullava per la testa, che lei aveva allungato una mano sulla patta dei calzoni saggiandone il contenuto: «Però, ce l’hai duro!» Un lampo di malizia nei suoi occhi e aveva slacciato tutti i bottoni che erano sul suo torace. Con un’agile torsione aveva sfilato il reggiseno portando le belle poppe a tiro delle mie labbra. Lasciandole in tal modo alla fantasia della mia lingua che aveva preso ad impazzare su ogni pezzo di pelle. Una sua mano aveva dato aria All’oca.

«Oh bimbo, l’è più grosso ora che stamane prima del piscio. Ma l‘è sempre questo l’effetto della mortadella?»

La sagoma della Topolino ci proteggeva dagli sguardi pruriginosi dei passanti sulla strada adiacente. L’ideale per una bella guzzata in plein air.

Avevo cercato di trarla a me ma lei, sorridendo e scuotendo la testa in segno di diniego si era rifiutata di stendersi.

«Dai, Lù. Qui non ci vede nessuno»

Aveva preso in mano il cazzo e allargato il sorriso. Avevo capito che dovevo lasciarmi andare alla sua proposta segreta.

La sua mano aveva manovrato per un po’ il mio prepuzio: só la pèl, żå la pèl. «Oh Lù, che manina che hai!» e mi ero rifugiato fra le sue tette per godermi in quella calda apnea i brividi della sua pugnetta.

Una sega fatta da una professionista fa la differenza. Eccome!

La sua precisa cadenza stava portandomi a vette altissime di piacere. Di lì a poco la cappella sarebbe deflagrata schizzando sborra su tutto quello che era a tiro. E avrebbe colpito e sporcato anche la giacca che aveva spianato per uscire quella sera. Unico capo elegante del suo esiguo guardaroba. Avrei voluto avvertirla pur se interrompendo la sega, anche solo un momento, avrei danneggiato il mio sguazzino. Stavo, ahimè, per dirglielo ma…

«Bän mo csa fèt?[14]» Lù aveva mollato l‘oca e stava sfilandosi la giacca. Era rimasta nuda dalla cinta in su e aveva anche capito che quell’interruzione non mi era piaciuta. La sua lingua-in-bocca mi aveva impedito di protestare.

Nel dirmi «Atto secondo» aveva ripreso possesso dell’uccello che al calore della mano si era levato. Pareva volesse spiccare il volo.

«Sà ti che sei proprio impaziente!» e un attimo dopo avevo sentito la delicatezza delle sue labbra avvolgere la cappella con la punta della lingua che ne stuzzicava il suo cordone. Sopra e sotto.

Era stata un continuo pompaggio di ganasce e cesello della lingua che non aveva trascurato alcun punto del prepuzio. Per non parlare delle evoluzioni sulla Cappella attorno al foro del piscio.

L’eiaculazione si era preannunciata con uno scramlizzo che aveva stroncato ogni bacaglio che a vanvera avevo preso a farfugliare. Aveva stretto forte il cazzo fra le tette mentre la sborrata era dilagata sul suo collo.

Non avrei mai immaginato il potenziale di godimento che può scatenare una spagnola quando è fatta ad arte.

Loffio fra le sue poppe si era ritrovata uno striminzito cazzetto.

Disperatamente eccitata

«E’ stato molto bello anche per me. Un bischero come il tuo fa sempre gola – e aveva riso per la battuta. Si era accoccolata contro di me e visto che non dicevo nulla – Ti senti sfinito… vero? Mi fai sentire un po’ in colpa. In queste ore che siamo stati insieme, al tuo bischero mi sono un po’ affezionata» L’avevo baciata a lungo e una mano si era fatto largo fra le sue cosce dove avevo sentito il suo slip intriso dagli umori della fregna. Gliela avevo accarezzata e questo l’aveva eccitata così che avevo fatto la mossa di montarle sopra:

«Pensi di farcela?» ma dovetti constatare che il suo artifizio aveva lasciato strascichi che si prolungavano nel tempo.

Il suo strusciarmi contro e lo sbaciucchiare che lo accompagnava mi dicevano che anche in lei il tiraggio reclamava la dovuta dose di godimento. Così avevo preso a baciare e leccare il suo corpo scendendo con la bocca verso il basso:

«Cosa vuoi fare?»

«Voglio leccarti la figa»

«Non puoi. Solo Poldo lo può fare»

«Ma dai…»

«Dico sul serio. L’ho giurato a Poldo innanzi all’altare della Chiesa del Carmine, al mio paese – e aveva iniziato a raccontare il fatto – Io e il Poldo ci conosciamo da sempre: l’asilo assieme e alle elementari nello stesso banco. Abbiamo giocato tante volte al dottore dai cinque-sei anni in poi. Quando ho cominciato a sentire i primi prudori è a lui che chiesi spiegazioni. Babbo mi aveva mandato da mamma e lei mi aveva detto che avrei capito tutto da sola crescendo – Teneva una mano sul mio uccello, moscio più che mai, forse confidando in ipotetiche virtù taumaturgiche delle sue mani – Col Poldo ci esplorammo a vicenda e scoprimmo quanto erano belli i ditalini e le seghe. Un giorno a scuola il Poldo mi disse di aver trovato in un ripostiglio di suo fratello, allora prigioniero degli inglesi in India, alcune foto che spiegavano tutto. Alle tre, in granaio me le mostrò. Erano le scene di una leccata di pippa. Calai le mutande e sperimentammo. Lo trovai meraviglioso. Sperimentammo per tutto il pomeriggio. Quell’esercizio ci unì anche sentimentalmente. Cominciammo a baciarci anche con la lingua in bocca. Ci cercavamo in ogni momento. Eravamo convinti di aver inventato l’amore. Un sentimento di cui, in quei giorni, tutti si guardavano bene dal parlarne. C’era la guerra e il fronte era a poca distanza dal paese»

A una sua pausa avevo provato inutilmente a risolvere lo stato d’abbandono in cui era caduto il mio cazzo che, nonostante mi fossi prodigato in una prolungata piluccata di capezzoli era rimasto oca morta. Lù mi aveva sorriso con tenerezza e ripreso il racconto:

«Il paese era diventato insicuro e la mia famiglia sfollò. Gli americani passarono e noi tornammo. Non era invece tornata la famiglia del Poldo. Ero disperata. Non esagero ma in quei giorni mi sentivo come la sposa di un disperso in Russia. In paese ce n’erano due e io mi sentivo molto vicina al loro dolore. Una di queste andava ogni giorno a pregare nella chiesetta del Carmine. Io la tenevo d’occhio e quando vedevo che si avviava in quella direzione anch’io partivo e mi inginocchiavo sulla panca a lei di fianco a pregare. Ogni volta lei mi diceva ”Grazie”. Non poteva immaginare che io pregavo per il mio Poldo, che mi leccava con tanto ardore la figa. Ero solo una bimba di dodici anni. Dopo una settimana di preghiere il Poldo e la sua famiglia tornarono. E il primo pensiero che lui ebbe fu quello di venire a dirmi che a Firenze dove era sfollato si era impossessato di altre foto che mi fece vedere. Raffiguravano alcuni pompini: “Adesso sì che abbiamo tanto da sperimentare. Domani però devi venire con me che debbo un ringraziamento alla Madonna.” Ci trovammo di mattina presto per andare al Carmine e appena la strada si era inoltrata nel bosco ci fermammo, baciammo e palpammo a iosa. Lui avrebbe voluto anche leccarmela, ma: “Prima la Madonna” e riprendemmo il cammino. Innanzi al Carmine c’era la moglie del ‘Disperso’ che pareva aspettarmi: “Grazie. Le mie con le tue preghiere sono state esaudite e il sindaco è venuto a dirmi che Gino è già a Firenze e sta tornando” e se n‘era andata. Soli, in quella sperduta cappella nel bosco pronunciai il giuramento che avevo promesso: “Grazie per avermi ascoltato. Come promesso giuro che non mi farò mai leccar la pippa da alcuno che non sia Poldo Barbanti” e Poldo aggiunse un suo impegno a leccare esclusivamente la passera di Luciana Lappi” Avevo acceso una candela: ci sentivamo proprio grati a Dio. Tanto che nel prato sotto l’apside ci saziammo a vicenda. Lui fra le mie smilze coscette di bimba. Io con la prima pompa della mia vita. Come vedi non posso proprio lasciarti fare. Anche se… – e mi era montata sopra premendo forte il suo bacino contro quello scioperato del mio uccello. – No, no Alberto, facciamoci una ragione: non posso fartela leccare»

Era stata perentoria con l’ultima frase. E per farmi capire che era ben determinata aveva rimesso quel vigliacco di cazzo dentro alle mutande allacciandone la patta. Così disperatamente eccitata appariva ancora più bella e quel broncio che aveva cercato di dissimulare con qualche sorriso mi aveva fatto sentire un inerte bigatto proprio come l‘inaffidabile protuberanza che tenevo fra le gambe.

Squallida puttana

Avevo tentato allora un banale rimedio: «Vuoi che ti faccia un ditalino»

Ma lei sprezzante: «Pensi forse di saperlo fare meglio di me? – Poi addolcendo il tono – Ma tu mi terresti fra le braccia coccolandomi mentre me lo faccio io?»

«Penso proprio di sì»

«E mi giuri che non interverrai e non farai mosse mentre vò in godimento?»

«Ma sì. Se ti piace così»

«Che caro!» e si era tosto abbassata la gonna e sfilato lo slip.

Avevo allargato le braccia e lei accucciatasi contro di me aveva fatto volare le sue unghie rosse verso il suo ciuffo. Pochi movimenti e «Oh, Bob… stringimi un po’ più forte… e non ascoltare i miei lamenti. – Poi Bob era diventato Poldo – Sì Poldo… così… così. Di più… di più… Più in fretta… Più dentro… Ci sono! Ci sono! Mmmhh! Oh Poldo-Poldo quanto ti voglio bene!! » Mi aveva poi preso il braccio che non la stringeva per portare la mia mano fra le sue cosce. Istintivamente avevo stretto con forza quella prugna e ciò aveva prolungato l’eccitazione di Lù che si era stemperata con le sue mani che stringevano la mia testa mentre mi dava baci all’impazzata sul volto.

«Oh Poldo, Poldo – sentitomi un po’ usato mi ero intestardito, anche se con fatica, a tener serrate le labbra. Poi… – Oh Bob… – era tornato quel nomignolo inventato lì per lì dalla passione – Oh Bob, scusami… che figura… Come ho potuto trattarti così volgarmente. Sono proprio una squallida puttana» Due lacrime erano calate sulle sue gote.

Indubbiamente tutto si era svolto in un’atmosfera assai erotica e sotto la braga sentivo che l’arnese aveva riacquistato il suo peso specifico e il giusto vigore. Sarebbe stato facile imporre la verifica e un atto riparatore. Ma qui s’era, bontà sua! intromesso Carlo-Carlo:

«Non vorrai micca passare da pistolone con una busona? Stai sulle tue e vedrai che tirerai su il dovuto»

Pur se con fatica avevo seguito il consiglio. Con il culo dritto avevo fatto su il plaid e l’avevo riposto nel baule con l‘aria di quello che sta per dire “Ricreazione finita” e avevo aperto lo sportello della Topolino.

Caramba!

Si era lasciata andare contro lo sportello e piangeva tirando su col naso «Se mi lasci in Centro vado per conto mio in San Marcellino. – e forse per farmi venire il senso di colpa – La strada la conosco fin troppo bene»

Al tornante successivo avevo deciso di scendere dal pero.

«Dai, smetti di frignare. In fondo dovevamo solo piacerci e penso che ci siamo riusciti»

«Riusciti? Per me è stato di più. E’ stato meraviglioso! Mai avevo passato ore così intense» E aveva dato la stura a una cascata di lacrime.

«Visto. Cosa ti avevo detto? Adesso se avesti un millecento e non sta trappola potresti sterzare in una cavedagna e guzzare, invece così..– Ecco, era saltato fuori anche Carlo-Carlo a cui avevo risposto ad alta voce, perché aveva ripreso un tormentone con cui mi assillava da mesi – Dai bene a Gerri[15] sto catorcio che non è certo dignitoso per un ‘banchiere’ come ormai sei»

«Lo so che in questo cesso non c’è spazio e che senza i ribaltabili non posso che farmi fare solo dei bocchini…»

La Lù, che nulla poteva sapere di Carlo-Carlo e pensando che avessi detto a lei: «Ah, se ti fa piacere… – si era avvicinata a me e una sua mano stava già mettendosi avanti coi lavori sfiubbando la sfessa – Mmmhh, ce l’hai già duro come stamattina… Io sono ancora senza mutande da prima così mentre ti sbocchino mi sparo un altro ditalino. Mi piace tanto far le due cose assieme! Caramba!» Aveva gridato scordando completamente le mestizie di pocanzi.

L’altro pulismano

«Caramba!» avevo gridato anch’io che avevo visto sul lato opposto della strada un sitarino discreto in cui la Topolino ci stava a pennello. Avevo sterzato di pacca, scordando di buttare un occhio al retrovisore.

Clacson che ruggivano, stridore di freni e la divisa di un pulismano di fianco allo sportello.

«Si rende conto di quello che poteva succedere? Patente e libretto… e può dire grazie alla nostra preparazione come motociclisti se non ha sulla coscienza le nostre vite» Aveva tratto il taccuino e cominciato un verbale pesissimo: guida pericolosa, inutilizzo dei segnalatori di direzione, auto in precarie condizioni di efficienza… E così via.

Luciana non era scesa dalla vettura. Si era messa a consultare una carta geografica che aveva trovato nella tasca dello sportello. Quasi tutta coperta dai fogli sembrava molto interessata a qualche itinerario.

«Sarebbero ventimila e il ritiro della patente. Se concilia subito le faccio diecimila. La ricevuta il comune poi gliela spedisce a casa – Conscio della colpa avevo pagato subito. Poi l’altro pulismano aveva aggiunto – la signorina è di queste parti?… E’ la sua fidanzata… Vero?»

«Sì ma non è di qua. Sta a casa dei miei solo per qualche giorno»

«Il collega si è sbagliato . Per tutte le infrazioni che ha commesso mancano ancora cinquemila»

«Ma…» Tentativo di protesta.

«Le và già grassa che non chiediamo i documenti alla signorina»

Avevo capito che era meglio rimpinzare l’obolo

Potevamo andare

Coca-Cola originale americana

Oramai non c’era più lo spirito giusto neppure per un sano bocchino e avevamo ripreso il nostro rientro.

«Non dovevi dire che ero la tua fidanzata. Sono due amici della Signora. Sono sempre alla Casa a scroccare marchette. Con loro non l’ho mai fatto ma mi hanno sicuramente vista in giro. Dirgli che ero la tua morosa hai fatto la figura del cornuto»

«Se non l’avessi dichiarato avrebbero preteso i tuoi documenti e lì dalla voce ‘professione’ sarebbe saltato fuori… Comunque, alla salute di tutti i cornoni del mondo andiamo da Zanarini a farci due belle Coca-Cola americane. Lì, sai, hanno proprio quella originale»

Da Zanarini avevo così potuto pavoneggiarmi agli occhi di chi mi conosceva e che mai mi aveva veduto con gnocca si’ rigogliosa.

Aspirante fidanzata

Per la cena avevo osato portare di nuovo Luciana da mia madre che stavolta l’aveva accolta con entusiasmo:

«mo è così bella che non può essere che buona e brava – e come avesse scoperto l’uovo di Colombo – Ha provato a fare un provino per Cinecittà?»

Luciana, arrossendo «Sa che mi sta dando un’ottima idea. Appena torno a casa provo a cercare qualche contatto. Se poi Alberto mi desse mai una mano…» si era divertita anche lei a recitare la parte dell’aspirante fidanzata.

Mamma, quella sera, intravedendo erroneamente un prosieguo di quella relazione, si era espressa ai fornelli come mai prima. Stappando anche una particolare bottiglia che era stata riposta con cura in cantina ancora da mio padre.

Non avevo detto a mamma dove avevo conosciuto la bella Lù e non credo che glielo dirò mai.

Tutto si era svolto in grande serenità con quel pizzico di follia stimolato dall’Amarone e che aveva spinto mamma addirittura a benedirci prima di ritirarsi nella sua stanza.

Mona Lisa, Nat King Cole

Eravamo rimasti nella sala da pranzo. Dallo sguardo di Luciana avevo capito che anche per noi era quasi l’ora della buonanotte. Sui suoi bei lineamenti del volto era ritornata un po’ di quella malinconia che si manifesta prima di distaccarsi da una persona cara. Avevo ricordato quando mi aveva detto il giorno prima, la Signora Lisa: «È dolcissima, anche se ci vuole un po’ a sciogliersi. Non fa giochi strani. È più adatta a voi coperchini che sognate ancora di far cose romantiche con noi puttane»

«Va bene se metto su Nat King Cole »

«Ti viene da ballare? »

«No, ma un po’ d’atmosfera» e mi ero messo a rovistare negli album sotto al grammofono Radiomarelli.

Avevo trovato Mona Lisa . Appoggiatolo sul piatto, era partito il leggero fruscio dei primi solchi. Mi ero girato e Luciana era lì, in piedi, innanzi a me completamente nuda.

«Sono le undici, vuoi fare l’ultima?» aveva la stessa espressione professionale con cui mi aveva accolto nella sua stanzetta quando le avevo allungato la marchetta, riscontro che alla cassa avevo pagato una semplice .

Non avevo scampo ma scampo non volevo.

Con una smorfia che poteva essere tutto fuorché un sorriso mi aveva infilato un preservativo che aveva nella borsetta.

Se la mia musica poteva anticipare come si sarebbe conclusa la serata, il suo approccio non aveva lasciato altre ipotesi e la proposta che ne era seguita aveva messo in evidenza la sua competenza e dimestichezza con le arti sessuali.

«Se te la do così, ti può piacere? – Si era inginocchiata sul divano mostrandomi la schiena. Aveva sollevato le chiappe, allargandole e mettendo in primo piano la villosa prugna – Vedrai quanto si gode di più così… Vieni… vieni… – e aveva preso a masturbarsi, incitandomi – ficcamelo dentro fino in fondo… Insultami… Dimmi quanto troia sono… Promettimi che mi spaccheresti il culo… Dai, dai…» Non avevo scampo ma scampo non volevo.

Manovrando con la mano l’uccello avevo allargato la fessura e la rigonfia cappella stava prendendo confidenza con quel caldo anfratto che per la prima volta saggiava da quell’angolazione.

«Tutto… tutto… Lo voglio tutto…» lo bramava con decisione. Fra noi si bisbigliava, tanto perché mamma non sentisse e questo erotizzava ancor di più il nostro abbraccio.

Non avevo idea di come si gestisse una pecorina. Dai racconti da bar avevo solo descrizioni molto triviali che tiravano in ballo la prospettica vicinanza al buco del culo. Argomento che non volevo stanare per non rovinare lo stile romantico di quella giornata trascorsa tanto dolcemente con una troia del casino. Sfregai per un po’ il gingillo nel solco facendo nasare alla cappella sia i contorni della patacca che l’orello del gentile. Superata così l’innata timidezza avevo brancato la ragazza ai lombi e spinto nella figa il cazzo. Proprio fin in fondo.

«Mmmhh, oh Bob… Mio Bob!»

Era partito un moto ondulatorio del boffice nel suo insieme con improvvise doppiette di striccate di culatte che avevano stimolato il mio venire a gusto. Ero andato dietro a questo ritmo che si era fatto sempre più pressante e al suo: «Ecco, ecco… sì, sìì sììì –  avevo doppiato il suo orgasmo, tentando di addentarle una spalla. – Quando lo faccio con Poldo, lui mi dice certe robe e ho scoperto che mi piace sentirmele dire» Aveva zavagliato, ancora in bazurlonia, mentre lo tiravo fuori.

Avevo sfregato più volte l’oca bazzocca sulla cadriga e il buco del culo. Le era sfuggito un gnicco ma:… «Ah, se avessimo più tempo! Baciami» e si era sdraiata.

Bocca sulla bocca, nulla ci eravamo più detti.

Forse è meglio così

«Non voglio che mi accompagni. Sarebbe una tristezza: un ultimo bacio poi spingere il portone del casino»

Sul pianerottolo, con l’uscio in casone erano stati solo sguardi, sospiri e abbracci a salutarci. Qualche bacio.

«Sento che non verrai più a cercarmi alla Casa. E forse è meglio così»

«Tu però devi metterti d’impegno a far risparmi e a portarli ogni settimana in banca. Io il mercoledì prenoterò sempre una possibile giornata di ferie…»

… e avevo dato il tiro al portone di sotto.

Passione e saliva

La Monica dormiente aveva evocato in me le guzzate della settimana prima con la Luciana, ma fra i due episodi non c’era un’attinenza specifica.

LA Luciana mi aveva colpito e soprattutto mi aveva fatto conoscere la figa al di fuori degli schemi del casino. Era una ‘figa’ evoluta che tentava di tenere separati gli affetti dal guzzare e bôna lè. Senza negarsi agli uni o agli altri.

Come mi fece meglio capire Carlo-Carlo con la sua sintetica espressività «E’ la ‘figa’ del domani – con un suo intervento, non richiesto, mentre ci rivestivamo dopo la trombata dell’addio –Però, oltre che una bella gnocca è una gran chiavatora! Ah, ce ne fossero state di acosì quando andavo a casino mè»

Non erano passati che una decina di giorni da quell’addio e improvvisamente la mia vita era dietro a cambiare e l’esternazione di Carlo-Carlo mi spaventava. Alla “figa del domani” dovevo contrapporre “la figa del ragioniere”. Era sicuramente più banale ma era quella che in fondo io cercavo. Quella del domani andava bene per i sogni, le cosiddette avventure. Sì, trovavo azzeccata la definizione figa del domani che però non poteva trasformarsi in figa del ragioniere e io ero un ragioniere che faceva il ragioniere 365 giorni all’anno meno ferie e festività. Era sicuramente più credibile pensare di far saltar fuori La figa del ragioniere da questa ragazzina che al momento me l’aveva solo fatta annusare, però con tanto entusiasmo.

Ma chissà come si sarebbe evoluta la storia che stavo cominciando con lei?

Ripensando all’avventura con la Lù, che molto probabilmente non avrei più frequentato, non avevo dubbi di quanto dovessi a questa gioiosa puttana che aveva voluto stemperare sessualmente con me la sua difficile vita. Questa sua breve fuga attraverso di me, aveva contribuito a farmi uscire dalla categoria dei mezzi-coperchini. «Un fatto importante – aveva commentato Carlo-Carlo, aggiungendo poi – l’êra åura![16]» Adesso, di fronte alla prima prova di cunnus extra lupanar, il bocchino e le guzzate con la Luciana mi davano quella punta di sicurezza in materia che prima non possedevo.

E, nel ricordo del sissignore con cui la dolce Lù mi aveva steso e osservando il corpo ignudo di questa adolescente intenzionata ad immolare la sua verginità con me, non ebbi remore a mettere mano alla spingarda che più dura di così non ricordavo aver giammai veduta. Ma cosa potevo fare se non una pugnetta? Anche perché la mia bella, beata lei, si era serenamente addormentata e mi dispiaceva svegliarla per la sola manualità di spegnere la mia oca.

Con precise mosse, di cui ero maestro, mi sparai un solenne raspone prendendomi lo sfizio di far arrivare qualche schizzo di sperma sul seno dell’addormentata.

«mo sóccia che spinta! è stato come se mi fosse caduta una bracia accesa fra le tette!»

Innanzi ai suoi begli occhi, orgogliosa, la mia cappella la guardava con quel ghigno malizioso che hanno tutte le cappelle del mondo quando sentono che in giro c’è odore di gnocca.

Monica le fece un sorriso birichino e qualche ciricocchino con la mano. L’uccello, in quel momento bazocco, si sentì ringalluzzito e si eresse, sia pure con qualche incertezza. Lei allora vincendo un ultimo ritegno che forse poteva ancora avere, lo prese in mano e: «Sai, che sei proprio un bel gioino… quasi quasi…» e con gran disinvoltura se lo infilò in bocca.

Prima però di perdere l’uso della parola, soggiunse allegramente: «Accidenti, solo se mi vedesse l’arciprete della mia parrocchia!» e si dedicò d’impegno alla lavorazione del pezzo.

Per uno come me che di tanto in tanto investiva qualche buono da mille per un super subiolo dell’Olga, quella dell’Unione e adesso anche il recente soppione della Lù, tutto quello sbaciucchiamento che la ragazzola dedicava alla mia cappella era acqua fresca. Ma, sarà stato per il sentimento che cominciava a conquistarmi anche nel più profondo dell’animo, o per l’ingenuità che lei dimostrava in quel gioco erotico, venni quasi senza accorgermene. Tanto che non sfilai in tempo la cappella dalla sua bocca riversando in essa il mio sugo.

Erano state due ore di passione e saliva. Avevo leccato ogni anfratto del suo angelico corpo. Peccato che non avesse le ali. Avrei leccate anche quelle.

Solo con affetto

Con l’oca in bocca sembrava proprio a suo agio. Appena l’avevo tolta dalle sue labbra aveva deglutito e ridendo con una certa sfrontatezza:

«Sai Berto, che la tua roba ha un vago sapore di mandorla – poi accarezzandomi i maroni – Adesso si che mi sento già donna!»

«Mi fa piacere. Ricordati che abbiamo ancora tante altre cose da fare…»

«No Berto… Va bene così… Il resto quando saremo morosi… a mé mi basta che tu mi dia una mano… quando mi viene lo sghiribizzo di farmi un ditalino… Capisco che per te… alla tua età… non sia facile… ma come hai visto posso sempre… sempre… farti… un bocchino… e se tu mi insegni ti faccio anche delle pugnette. Questo credo che anche mamma non troverebbe un gran che da dire. In un certo senso è un consiglio che mi ha già dato: “Due bacini in punta o una sfregatina all’uccello non lasciano segno. Invece…” Più chiara di così! – Trasse un sospiro di rassegnazione, come dire: “Cosa ci possiamo fare? Bisogna stare ai detti!” – Voglio però ringraziarti perché prima se avesti voluto andare fino in fondo non sarei riuscita a tirarmi indietro… Berto, sei proprio un bravo ragazzo! Sono contenta d’avertene data almeno un po’… e… e… non vedo l’ora ed żughèr a pecciablîguel con tè !»

Mi si bagnarono gli occhi per la commozione e la presi fra le braccia. Stavolta solo con affetto.

Io la guardavo e mentre la guardavo mi innamoravo.

«Ascolta mò ragazola: non diremo subito a tua madre cosa è cambiato fra noi ma non possiamo micca continuare a far come ieri che siamo andati di lungo a farci dei grugni…»

«Per oggi facciamo finta di gnente poi tè stasera mi inviti a venire con tè al Vallechiara e sono sicura che poi riesco a dirle che voglio stare con te senza doverle raccontare di oggi. Cs in dit?[17]»

«Facciamo mò così… Adesso io vado in spiaggia per conto mio e te continua pure a studiare…»

Cominciò a rivestirsi. Le allacciai il reggipetto a fiori. Poi lei, con un certo sussiego si infilò quelle buffe mutande. Una brutta braghetta sicuramente confezionata da sua madre con la Necchi[18]

Io la guardavo e mentre la guardavo mi innamoravo.

Forse lei diede una sua interpretazione del sentimento che stava crescendo in me e mi disse con un filo di voce… quasi si vergognasse:

«Se ti fa piacere darmi anche un’altra piluccatina alla parpaglia… Io non dico no» Lasciò cascare per terra la braghetta e si gettò sul letto: cosce ben aperte e un po’ sollevate.

Ne saltò fuori una leccata di prima categoria anche perché, preceduto dal suo venticello, si era fatto sentire Carlo-Carlo che al momento opportuno aveva tirato fuori uno dei suoi buoni consigli. Quasi fosse Lisa Biondi[19]:

«Ecco, adesso che lei ha tutto aperto prova a metterle un dito in culo, Sempre mentre le plucchi la saracca. Vedrai che non si lamenterà»

Anche se avevo qualche dubbio per motivi di pudore, non potei che dargli retta e cominciai a sburziglarle con le dita l’orlo del gentile. Lei capì l’intenzione e strinse le cosce contro la mia faccia però allargando le chiappe. Il giusto momento per andare dentro al tafanario col ditino… Naturalmente senza smettere di stuzzicarle il grilletto con la lingua.

Tutto ciò la faceva smergolare come una gatta in amore tanto per farmi capire che avevo colto nel segno.

«Hai visto, caràggna d un cuarcén, che le hai fatto solo piacere!» aveva commentato Carlo-Carlo, tronfio della sua antica saggezza.

Presi coraggio e sostituii il ditino con il ditone.

«Ostia, che roba!… Chi l’avrebbe mai creduto! Dio se ti voglio bene!»

Alcuni sobbalzi con la patacca che premeva contro la mia faccia… Era venuta!

Era quasi l‘ora del desinare e c’era rischio che tornassero le nostre madri. Se ci avessero trovato lì potevano mangiare la foglia. E avremmo fatto padella.

Rivestito in fretta e furia arrivai in spiaggia che loro erano dietro A tornare a casa.

I segreti della Norma

«mò sócc’ia che telefonata!» fece mamma.

«ói, mo ho dovuto…» il resto cadde da sé

«Berto, senti mò la Norma che ha un favore da chiederti»

«Mi dica mò Norma…»

«Ne avrei due dei piaceri da domandarti: il primo è per un problema di Monica… Vedi bene di strolgare qualche incantesimo che la faccia tornare quella ragazzella allegra e simpatica com’è sempre stata… E’ un periodo che non le si può andare vicino o dirle qualcosa che reagisce con modi da maleducata. Sono convinta che se la inviti a giocare a bigliardino o a ping-pong sarebbe contenta e magara…»

“… e magara… mi fa anche un altro bocchino” pensai trivialmente.

«Norma le prometto che stasera a cena…» la rassicurai.

«L’altra cosa è che mio cugino, che non vedo da prima della guerra e che sta qui a Rimini, è stato operato al fegato e mè vorrei andare a vederlo. Potresti micca accompagnarmi a trovarlo all’ospedale? Visto che sei venuto con la Topolino… Alla benzina ci penso mè»

«Bene Norma, per la benzina non se ne parla. A che ora vuole andare?»

«Bisognerebbe che fossi lì per le quattro. Ne avrò per una cioppa d’ore… Te intanto potresti andare a fare un giro a Riccione che è a due passi… Lì girano certi sicarnini … Potrebbe anche darsi il caso che té catti qualcosa di interessante per dopo … In ogni modo, per le otto saremo qui per la cena… da quella via , fammi ben anche quest’altro piacere, se sei d’accordo, andiamo ben via ognuno per conto suo e fai che non ti scappi detto mai gnente di questo viaggio con la Monica….»

«bän mò com’è tanto segreto?»

«gnente segreti… Il fatto è… è… che… che, il figlio di mio cugino, l’anno scorso ci venne a trovare e deve aver fatto uno sgarbo alla Monica e lei, che per certe cose è un po’ pugnetta, se l’è legata a un dito e non vuole più sentirli a tosse. Ne lui, ne tutta la sua famiglia. Allora mè… io… non vorrei dare un dispiacere alla mia ragazzòla proprio adesso che la vedo così giù di corda»

«cuntänta vó? Però, se poi vostra figlia impara che le ho tenuto bordone mi mangia la faccia» ebbe un moto di stizza.

«alåura té non mi prometti che se lei ti domandasse mai qualcosa, tè non le dirai gnente? Ne d’avermi portata a Rimini, ne della faccenda del figlio di mio cugino?…»

«Io posso solo promettervi che cercherò di non incucciare vostra figlia prima di partire. Così lei non potrà mai sapere che siamo andati via assieme. Se poi lei dovesse nasare e mi facesse delle domande le dirò che vi ho portato all’ospedale ma che nonso il perché»

«và bän… và bän…– borbottò la Norma molto contrariata. – mé… io… ho necessità di vedere mio… mio cugino… E sono anche sicura che a lei-là non importa un azidóll di quello che fa sua madre… in questi ultimi giorni la Monica mi sembra così invornita che non si preoccupa certo di badare a mè…»

Tagliai corto:

«La Topolino è parcheggiata all’angolo con la Provinciale. Ci troviamo lì alle tre»

Un brodino senza ditalini

A pranzo Monica non si fece vedere: si fece portare da sua madre in stanza una tazza di brodo con socuanti parpadellini: «Ho un mal di testa… Voglio finire gli esercizi di questa settimana… Mi faccio poi una doccia e un bel sonnellino. Ci vediamo stasera a cena» le aveva detto per poi metterla fuori dalla stanza con delicata decisione.

Certo che ‘il brodino’ glielo avrei portato volentieri io, ma come poi giustificare il lasso di tempo in cui mi sarei intrattenuto per quel banale compito? Sì perché mica si può subito tirar giù le braghette e via di lingua. La passione ha i suoi tempi e se in giovine età il godimento è lì a portata di mano, il repentino abbandono genera angoscia e rancore. Così con le palle piene e il priapo in erezione mi ero accinto al desinare.

Scaglia o solo sbagerla?

Alle tre in punto ero al volante della Topolino. La Norma arrivò amasata come una scaglia di porta Mascarella: un bolero con tanti bagagli che luccicavano su una camicetta senza collo con tre bottoni slacciati, tanto per mettere in mostra due terzi delle tette, tenute su da un reggipetto color argento. La sottana era larga, corta quel tanto che quando si accomodò sul sedile mise in mostra le giarrettiere rosse e i succinti slip di pizzo nero, traforato. Le calze erano a rete come aveva visto dalla Greta[20] in certi suoi film.

Ma, – mi venne da pensare – si vede che qui usa vestirsi da sbagerla per consolare i moribondi!”

Saltò fuori anche Carlo-Carlo che fu ancora più carogna: «Secondo mè, lî qué, l’é drî ad andare a farsi chiavare. Anche perché ho controllato il registro dell’ospedale e non ho visto alcuno dei suoi parenti ricoverato»

«ói!» mi scappò detto a voce alta.

«Èt détt quèl?[21] – fece lei. Poi continuò con tutto un altro discorso: – Sai che con quello che ci siamo detti prima ho capito il perché alla tua età non hai ancora messo su la morosa… Che tua madre ci terrebbe tanto»

«Questi poi, se mi permette, Norma, sono solo fatti miei.»

«Ah sé… sé… mò sicuro… Era solo per dire che hai un caratterino un po’ spigoloso e puntiglioso. Non ti arvisi micca alla tua mamma che è sempre così allegra e non se la prende mai con nessuno. Una bella fortuna… Sarei così anch’io se non fosse per via che ho una figlia che sta per entrare nell’età più difficile, mo per adesso che è ancora una cinna ci riesco a starle dietro ma fra due o tre anni, quando comincerà a sentire gli sburziglini dell’amore sarò buona di consigliarla per il suo bene e magara anche di fermarla se ce ne fosse mai di bisogno?»

Tutto quel cianciare mi stava sconvolgendo e mi scappò un «azidänt!» che prese come un augurio a lei diretto «Perché poi azidänt?»

Repressi l’istinto di dirle che di sua figlia non sapeva neppure come pisciasse. Poi in prospettiva dell’imminente confronto che avrei dovuto sostenere con lei stemperai la risposta: «azidänt! per dire azidänt, un bell’impegno!» La Norma si chetò e io trovai il modo anche di farla tacere per un po’ «Scusi Norma, mo adesso vorrei sorpassare questo camion che ci sta impuzzolentando e se mi metto a parlare con voi non riesco più a concentrarmi per il sorpas…»

«bada pur lì» E fino all’arrivo non disse più gnente. Era molto allegra e di tanto in tanto intonava Grazie dei fior[22].

Parcheggiai innanzi all’Ospedale: «Alåura… – fece lei – Va bene se ci cattiamo qui stra le sei e mezza e le sette?»

«benéssum»

Come una saetta saltò fuori la voce di Carlo-Carlo: «Dai, dai… valle dietro senza farti vedere. Non fare il mammalucco. Scoprire dove va ti può sempre venir buono» E io lo presi in parola.

Azidoll!” L’ingresso dell’ospedale aveva un lungo corridoio che portava in un’altra sala che dava su un’altra strada. E lì davanti quell’ingresso c’era una macchina con un tizio che l’aspettava.

Lei si guardò attorno. Io, svelto, mi nascosi in un cantone e lei saltò su quella millecento[23]. In quell’auto avvenne subito un’esplosione di baci e abbracci. Poi la macchina s’avviò con quei due sempre abbracciati. Sembrava una grande passione!

“Brutta vacca! Mi hai fatto fare la parte dell’imbecille. Questa non te la perdono! E ringrazia che tua figlia me l’ha già fatta nasare, se no strolgherei qualcosa per sputtanarti in tutta la spiaggia. busona!”

Come nei patti alle sei e mezza la Norma venne fuori dall’ospedale con un’espressione di circostanza: seria e con tanta falsa malinconia negli occhi.

Nell’infilarsi in macchina mi accorsi che la sua camicetta era un bel po’ strafugnata e che non aveva più il reggipetto. slumando poi la sottana, che era venuta su, vidi che non indossava più ne le calze ne le giarrettiere. Gli slip erano finiti nella borsetta. Ma questo me lo fece notare quel ficcanaso di Carlo-Carlo. Per finire…: nell’orlo della sottana c’era una padella che non si faceva fatica ad immaginare che fosse lo stiatino d’un cazzo.

Guidai a busso: prima me la scavavo d’intorno meglio sarei stato. Non dissi una parola, se non:

«Che ti venisse un accidente, brutto bastardo…» a un Mosquito che mi aveva tagliato la strada.

Lei, la Norma, invece cominciò una litania di disgrazie riferite al suo fantomatico cugino. Ma visto che l’argomento non mi muoveva a compassione, passò a chiedermi consigli: «… tè che sei giovane» per certe sue preoccupazioni per Monica: «… vedi, ha ancora la testa da cinna. A volte mi domando se non sia un po’ maschio: le piace giocare al bigliardo, al bigliardino, a pingpong… Non la vedo mai dimostrare interesse per attività da femmina… Noi mamme siamo sempre in angustia… anche se mè credo che la Monica sia una brava cinna e sono sicura che poi andrà ben a catare un ragazello che la farà felice. Sé, come lo è, poi, sua madre, mè… Vedi. Berto, io ho il mio Gìsto che non vede Gnent’altro che me e sua figlia che, anche se adesso è un po’ sgodevole, dei dispiaceri non ce ne ha mai dati. Cosa mai si può pretendere di più» E Così via, con tutto un repertorio di “Lei donna virtuosa e fortunata che tutelava la buona famiglia”

A forza di morsicarmela avevo la lingua che mi faceva male. Per fortuna eravamo già dietro casa. La Norma mi disse di lasciarla vicino alla spiaggia: «E’ l’ora del ramino serale. Se faccio in furia riesco a fare sette o otto mani»

Io invece andai dritto a casa.

Salta fuori Jasmine

Qui, c’era solo Monica che leggeva un libro nel giardino.

«C’è qualcuno in casa?»

Mi si attaccò al collo baciandomi. Sì, in casa non c’era proprio nessuno!

«Matematica o geografia?» e indicai il libro.

«E’ un libro francese»

«Mo schiżla. In francese?… Fa vedere la copertina… ma se non ha neppure il titolo?»

«Eh… – fece lei mentre i sui occhi emanavano una luce malandrina – è uno di quei libri che parlano di… di… robe che qui da noi è proibito vendere o anche solo avere in casa…» Mi guardava con un’espressione di sfida e aveva fatto i ganassini rossi.

«E tè dove l’hai trovato?»

«Ne ho già letti tre… – disse con una punta di orgoglio –          me li dà la Gloria… lei, ha il moroso francese e là da lui si può leggere tutto quello che uno vuole… Vedi a non avere il Papa in casa!»

«Cos’hai contro il Papa?»

«Mo mé? gnínta… Figurati che mi è simpatico anche Don Alfonso, l’arciprete della mia parrocchia… anche se delle volte tira a fare il ninino»

«Sai che a me non è mai capitato uno di questi libri fra le mani… dâi mò, leggimene un po’…»

Sfogliò alcune pagine…

«Un po’mi vergogno… Debbo tradurtelo perché è scritto in francese»

«E te il francese lo mastichi come una parigina?»

«Ói! Volevo capire questi libri e mi sono iscritta a un corso serale al Circolo dei Tramvieri. Anche perché da grande voglio fare la scrittrice e il francese è indispensabile – e con un sorriso divertito – Così mi hanno rimandato a ottobre in matematica e geografia – Prima di cominciare a leggere mi abbracciò e mi chiese «Ti dispiacerà se dopo gli studi farò la scrittrice?» Solo dopo una mezza giornata da quando era iniziata la nostra storia , aveva già pianificato la nostra vita per i prossimi dieci anni. Senza badare che in quel preciso momento mi si stava ingrossando l’uccello. «Sarò fiero di te e ti aiuterò per quel che so fare. Sono velocissimo con la dattilografia…- Mica potevo rovinare i suoi sogni. Poi che ne sapevo io se fare la scrittrice era un bene o un male? – Allora… mi leggi qualcosa?»

«””In un certo senso, la servetta Jasmine si sentì onorata di aver tra le labbra il rovente dardo del Conte. Anche se lui, come uomo le faceva totalmente schifo. Quello che invece non apprezzò furono le due dita che lui le stava introducendo nel bocchello posteriore””… Che inbezélla, è così bello!» commentò la Monica e fece per riabbracciarmi.

La fermai, ma solo per spingerla dentro casa.

«Le ‘vecchie’ sono tutte e due al Bagno a giocare a ramino. Le vedremo non prima di un’ora»

Contro la tavola le ficcai la lingua in bocca, le tirai su la maglia e scatenai la lingua sulle tette.

Mi fermai perché mi venne in mente che a Rimini, per ingannare il tempo e pensando a lei, avevo comprato un braccialettino d’argento.

Le diedi il pacchetto che lei aprì piena di curiosità.

«Mo s l é blén![24] – e s’attaccò alla mia bocca. Poi un po’ arrossendo maliziosamente – Cos’è per il bocchino che t’ho fato stamattina?» e tornammo ad attaccarci: una sua mano si infilò nei miei braghini da mare e strinse forte il billo che s’era già indurito.

Partì con una pugnetta un po’ grezza ma piena di sentimento. Forse troppo : «Oh Berto… solo il pensiero che adesso questo è tutto mio mi ha fatto tutta bagnare – per un attimo si rabbuiò – Vero che è tutto mio? – con insistenza – Mio e solo mio. Vero?» aveva accelerato il movimento forse sicura che la mia venuta a gusto avrebbe stimolato una risposta positiva. Niente di tutto questo perché quell’impulsivo smanezzo più che piacere mi procurava una lieve sofferenza che senza preavviso smorzò il bagaglio: «Oh Berto… Berto, cos’ho mai fatto! – e più disperata che mai – Non lasciarmi… Berto… Ti prego… giuro che imparerò a farle… Dammi tempo…» E qui saltò fuori tutta la mia picaglia tenera e la rassicurai con baci e abbracci. Andai anche oltre dicendole che il mio cazzo era suo. Solo suo perché l’amavo.

«Allora ti faccio un bocchino – sbottò con ritrovata baldanza – Ho visto stamattina, che lì ci so un po’ fare» In ginocchio si rimpossessò dell’uccello imbazocchito All’ignaro uccello fece compiere il giro turistico di tutto il suo bel faccino: se lo strusciò contro le guance, sulle palpebre degli occhi in un’espressione sognante. Sospirava, baciò la borsa, passò la lingua su tutto il filone del prepuzio fino al cordone del glande che lasciò fra le labbra indugiando nelle coccole.

Volle dirmi che tutto questo l’aveva imparato nel terzo capitolo della Jasmine e ne sorrise. Non potevo che incoraggiarla. Se lo infilò in bocca e si mise a succhiare. Decisamente aveva letto con molta attenzione

«Oh, bimba mia… vengo… mmh… vengo…» Provai a sfilarlo ma lei l’impedì usando anche i denti. E così per forza maggiore non potei che schizzarle fra le gengive.

Aveva deglutito il tutto e stavo baciandola – per rispetto, come si fa – quando… «Su… su… Monica… sparisci… Svelta! »

Mi giunse da lontano la voce di sua madre che chiacchierava con la mia.

Monica andò di volata nella sua stanza e io mi infilai nel cesso. Una sana pisciata pareggiò tutte le tensioni della giornata… E che giornata!

Una bella coppia

A cena io e Monica ci comportammo come da copione: lei andò di lungo a farmi grugni e piccoli dispetti. Io ostentai distaccata superiorità, ignorandola.

Con noncuranza mentre pelavo una mela, completai la recita con: «Monica, io stasera vado al Vallechiara, vuoi venire con me? Può succedere che ci sia qualche cinno che ti faccia fare uno o due balli» e feci l’occhietto a sua madre.

Monica fece il solito grugno però… «pîz par té[25] : ci vengo proprio! Così poi posso raccontare a tutti in quante ti diranno di no – Tornò a mostrarmi la lingua e, col culo dritto – Vado a mettermi in tirella» e la Norma le tenne dietro.

Mia madre, donna molto riservata, mi disse sottovoce: «Non prenderla sempre in giro… Monica non è più una cinna e s’è anche fatta una bella ragazza. Io, al contrario di sua madre, che non lo vuol capire, so che lei ci tiene tanto a fare la donna… Poi è così carina ed educata con me!»

«Non dirlo a me. Vado a cambiarmi anch’io… Stasera è una serata speciale» Le diedi un bacio in fronte come fanno i bravi figliuoli e mi chiusi in bagno. Doccia. Con orgoglio passai in rassegna l’uccello: “E’ proprio un bel pezzo” Ne accarezzai con affetto la borsa e lui ebbe un moto di gratitudine: “Aspetta e godrai

Monica s’era manvata con gran gusto. Scarpe con un tacchetto un po’ ardito la facevano quasi più alta di me. che non sono un tappo.

«Siete proprio una bella coppia!» ci dissero in coro le mamme e Monica: «Preparate gli zuccherini!»

«Bisogna poi vedere se il ragazzo che porti a casa va bene a tua madre… che è giustamente difficile»

«Fà pûr l esen![26]» commentò la mia uscita mamma, tanto perché capissi che aveva qualche intuizione.

Tu che hai la Topolîno

«Mo st î bela ![27]»

«E té… Che eleganza!»

Nel baciarci lei mi fece la sua proposta per la serata:

«Cos’andiamo a fare al Vallechiara? Hai proprio voglia di ballare? E se invece andassimo a fare un giretto con la tua Topolino e ci fermassimo in un sitarino tranquillo a chiacchierare?… Ho letto in un bel romanzo americano che lì i morosi vanno con la macchina addirittura al cinema… che magata! A me piacerebbe un casino! Pensa, stare abbracciata a te e guardare il film! Nascondermi fra le tue braccia nelle scene violente e sai che svarżûra quando in quelle d’amore dove si baciano d’arpiatto sentire la tua mano fra le mie cosce a slambiccare nella parpaglina… Mmh! Che scramlizzo!»

«A sì sì… – dissi con poco entusiasmo. Per una sorta di scaramanzia dopo il viaggio con la Norma, per quel giorno nella Topolino non volevo più entrare: – Però da noi i draiv-in, come li chiamano lungo, non ci sono…»

«Lo so anche mè che non ci sono. Dicevo solo quello che mi piacerebbe fare se fossimo in America… Però te la macchina ce l’hai…»

«E té péccia![28] Il giro in macchina lo facciamo poi domani. Per stasera ti faccio io un’altra proposta»

«Dâi mò! Che non possiamo mégga stare cvì nel mezzo di viale della Libertà fino a mezzanotte» «Se ci hai fatto caso, le nostre madri quando sono le nove e mezza, dieci al massimo, pigliano su e vanno a letto. Mia madre a volte legge. La tua non so…»

«Da quando siamo qui, la mia, prima di cena, prende due o tre pillole e appena si sdraia va in catalessi e ronfa fino al mattino. Gliele ha date il farmacista qui, contro l’esaurimento nervoso. Un po’ come te» e si mise a ridere.

Le striccai una tetta. Mi mise la lingua in bocca e rimanemmo abbracciati a lungo ciucciandoci.

Come tutti i primi amori aveva la bocca odorosa.

«Vût magnèrla tótta?[29]» ci urlò dietro un ciclista di passaggio.

«Finisci la tua idea»

«… ho visto che nessuna delle due esce dalla stanza fino alle otto del mattino. Neanche per pisciare. Strategicamente, adesso sono le nove e mezza, se noi andiamo alla gelateria …»

Fantasma specializzato

«Sé, Berto, d’accordo che è la prima sera che andiamo fuori insieme mo mé, e cerca di capirmi…, sono cotta di te e ho voglia di te. Voglio abbracciarti, baciarti… e non vedo l’ora che té faccia la stessa cosa con mé… Tanto per dire, oggi che avevamo deciso di non vederci… Mi ero ripromessa di studiare per almeno tre ore. Ne ho così bisogno! – intanto eravamo arrivati in piazza e ci eravamo seduti al Nuovo Fiore – Non c’è stato niente da fare. Non sono riuscita a concentrarmi. Il Paraguai diventava senza ragione l’Uruguay, a Città del Messico ho scritto che c’è il mare e che il Rio della Plata è un affluente del Mississippi… Poi mi è cascata tre volte la biro che è andata sotto al comò. Per riprenderla ho dovuto sdraiarmi. Insomma, un casén dla Madòna! – mi piaceva il suo racconto. Le tenevo e le stringevo la mano – E tutto questo perché sempre mi tornava quello che c’è stato fra noi stamattina. A tratti mi pareva che le tue mani fossero ancora lì a cipollarmi le tette… i capezzoli… a pistolarmi la gemma . Sentivo la tua lingua scorrazzare in ogni piega del corpo…»

“Non sarà che cal ninén ed Carlo-Carlo pur da fantasma riesce a metterle le mani addosso…” mi venne da pensare, accorgendomi così che già in me si era installato il germe della gelosia.

E, verificai pure che con un ectoplasma di mezzo il pensiero diventa parola. Tanto che, sempre annunciato da un piacevole venticello, captai la voce di Carlo-Carlo «Bän mo csa dît?[30] Un ectoplasma spezializè come sono mè non può micca permettersi certe libertà. Finirei subito a l infêren. Poi, guardami bene nelle ballotte degli occhi. Pensi proprio che possa fare una roba così alla donna del mio figlioccio?» A parte che non sapevo come guardarlo negli occhi, non potevo che credergli.

Monica intanto continuava il racconto del suo pomeriggio «… non riuscivo più a star ferma. Faticavo a dominarmi. Tenevo le gambe strette e accavallate tanto perché così, se mi fosse caduta una mano in grembo non sarebbe potuta cadere lì, dove avrei bramato. Ah, se fossero state lì le tue lunghe e affusolate dita da ragioniere!»

«Azidänt, che romanticismo!» commentai l’arrapato racconto

«Aspetta pure che voglio che tu sappia fino in fondo… Solo che sfregandosi fra di loro, le cosce, non facevano che stimolare la passera mentre mi pomiciavo le tette a più non posso. Faceva un caldo diavolo anche se mi ero tirato via ogni roba. Stavo già guardando con libidine la poltrona in cui mi sarei messa per ciapinarmi il grilletto quando dalla finestra aperta è arrivata una ventata dì ben gelida, gvè, che ha raffreddato ogni mio bollore e… mi è parso anche che una voce, ma questa è solo la fantasticheria dell’eccitazione che mi aveva sconvolta…»

«E la voce… com’era?»

«Ah, la voce… Non era la tua voce, mi ha solo detto: “Lascia ben stare che ci pensa poi lui-là stasera”. Ero già nuda e così ho deciso di farmi una doccia»

Arietta e voce con riverbero, tornò Carlo-Carlo:

«Vedi che sono un amico».

«Bell’amico! Non perdi occasione per slumarmi la ragazza quando è nuda» pensai intensamente, sicuro così che Carlo-Carlo avrebbe captato.

«Tieni presente che vi vediamo sempre e comunque solo nella vostra nudità. Anche adesso. Ma perché? Perché per aiutarvi lo dobbiamo fare attraverso l’anima. E questa non sta nel bisacchino»

«Ti annoio?» Monica aveva notato la caduta d’attenzione. La rassicurai prendendole una mano e facendole sentire il turgore che era cresciuto sotto la sfessa. Trovando anche la giustificazione per la momentanea distrazione: «Stavo cercando di smorzare lui qui prima che debba alzarmi»

Sorrise un po’ arrossendo e andò avanti con il racconto «So di non avere ne la virtù ne la tempra per i fioretti e così sotto la doccia… Sarà stato il getto caldo, sarà stato il grande specchio della cabina… non mi ero mai vista mentre mi masturbavo… ho aperto più che potevo le gambe per guardare in faccia il grilletto ch’era tornato ad agitarsi e dal momento che c’ero mi sono fatta due ditalini pensando a te. Non pensare che per questo mi senta appagata. Tanto per dire: adesso sarei la ragazza più soddisfatta del mondo se te prima di lasciarci me ne facesti anche uno solo. Che sò, potremmo ardopparci nel capanno-ripostiglio che è nel nostro cortile. A quest’ora chi vuoi mai che… Li ho visto che c’è anche una vecchia poltrona sgangherata. Su quella potremmo sicuramente fare tutto quello che ci pare. Se poi riuscisti anche a plucc…» Stoppai la sua idea mettendole la lingua in bocca incurante che attorno a noi tutti i tavoli fossero pieni:

«Senti mò il mio piano, poi scegli tu: verso le nove e tre quarti pigliamo su e torniamo a casa. Ci saremo attorno alle dieci, quando tutte e due le Vecchie saranno già a letto… Tu andrai a dare la buonanotte a tua madre o se no a controllare che dorma della grossa. Disfi il tuo letto. Ti cambi per la notte e vieni a infilarti nel mio letto. E così comincia la nostra prima notte d’amore! Cosa ne dici?»

«Dico che questi gelati li pago io. Mamma mi ha dato anche i soldini»

«No, Cocca… Te adesso sei una signorina e non è bello che le signorine paghino per i cavalieri»

«Contento te? La mamma però m’aveva detto di pagarti la consumazione al Vallechiara per ringraziarti del piacere che mi hai fatto a prendermi con te. Vorrà dire che sta notte ti farò un caramellone in più» Si divertiva un mucchio con i giochi di sesso che aveva appena scoperto!

«Oh, Berto… Mancano cinque minuti ai tre quarti – Mi ero incantato a guardare il passeggio e sobbalzai – T’ho fatto paura? Cos’eri dietro a pensare?»

«Ragionavo da ragioniere»

«Andàggna?»

Le accarezzai una guancia e ci avviammo.

A casa per prima cosa andai a dare la buonanotte a mia madre.

Òcio, non à ha ancora diciassette anni

«Fermati un momento… uno solo e dimmi una cosa…: che sentimento hai per la cinna?» Mamma non prendeva mai giravolte, arrivava subito al nocciolo di un argomento.

«Credo proprio di esserne innamorato»

«Mi raccomando, guai a te se la prendi in giro… Avete già…?»

«Stai tranquilla: è ancora come l’ha fatta sua madre… – e volli aggiungere – quella vacca!»

«Ma cosa dici, la Norma? Com’è che hai una così trista reputazione di lei?»

«Ho le mie ragioni…» Mamma non insistette perché era altro quello che la preoccupava.

«Sarà meglio che quando viene suo padre diciate a tutti che vi volete bene e che volete stare insieme. Tienti a mente che non ha neanche diciassette anni – stavo andandomene… – Berto, vedi bene che anche nell’entusiasmo di stanotte non succeda quello che fin’ora hai detto che non è successo»

«Perché… stanotte? Cosa ti viene in mente?»

«Quello che avete in mente di fare»

«Tu come fai a sapere che…»

«Gnente di preciso… Solo una strana sensazione che provo da quando siete rientrati»

«Bän mo mâma.. vuoi mai che noi… qui,… con la Norma che dorme nella stanza di fianco…»

«Non so ma prima una voce nella testa mi ha detto che Monica stanotte, cheta cheta… E ti dirò che è una voce che mi sembra anche di conoscere… È’ sicuramente uno scherzo dell’immaginazione. E anche perché ieri sera… avevo capito che la vostra era una commedia mal studiata» Mi venne un sospetto.

«Quella voce a chi potresti arvisarla»

«Ti ricordi quel’amico di tuo padre… Carlo-Carlo? Ecco, potrei giurare che quella fosse la sua voce. Però state pur tranquilli che io non verrò certo a disturbarvi. E se quella agitata della Norma dovesse mai venire su, la tengo a bada io».

Calda bollente

Erano sì e no le dieci e mezza quando Monica, senz’accendere la luce, si cavò la camicia da notte e s’infilò sotto il lenzuolo.

Si allungò sopra di me e attaccò la bocca alla mia, sfregando e spingendo forte il suo pelo contro il mio cazzo.

«Mo socc’mel se dev’essere bello farlo con tutto quello che ci vuole! – cacciò un lungo sospiro – Sentirselo tutto dentro… Dentro fino in fondo… Caldo bollente come lo sto sentendo adesso contro la mia bella parpaglina! Che cagata il coperchino!… Vero?»

«Proprio così. Cerchiamo di tener botta almeno fino a domani… Dopo che avremo detto a tutti… ci diamo dentro quanto ci pare» e la feci saltar giù da sopra di me. Era difficile tenere a freno l’oca. sempre in agitazione, quando a tiro sentiva culi e pippe.

Continuai però a lisciarle il pelo e a rumigarle. nella crepa con due dita per poi smenarle un ditalino che la fece piangere dal gusto

«Sei ben bravo gvè con le dita. Sta volta poi che hai messo dentro anche il terzo mi hai fatto venire subito. Chi ti ha insegnato?»

«Sono nato acosì»

«Chissà a quante li hai fatti? – e si fece seria – Berto, non ti ho chiesto una cosa importante»

«E allora, chiedila»

«Non è che a Bologna hai la morosa o una giù di lì?»

«Ma dai! Vuoi mai che mi metta a prendere in giro proprio una cinna come te che ho quasi visto nascere»

«Non mi racconti delle balle, vero?»

«Potrei anche giurartelo»

«Sai che ho dei sospetti…»

«Ma com’è?» nell’attesa della risposta mi ero messo in bocca uno dei suoi capezzoli. Sapeva di cioccolata! Le chiesi com’era.

Rise divertita: «E’ un afrodisiaco che mi manda un mio spasimante australiano che tengo sulla corda dall’anno scorso – e sospirando – Fu una storia bellissima nata proprio qui, nel giardino davanti a casa. Peccato che lui avesse moglie e due figli!»

«Debbo crederci?»

«No, ma quando vengo qui al mare di passioncelle ne saltano sempre fuori. L’anno scorso, Bernardo: due baci. Prima di lui, un bacio con Carlo. L’anno prima ancora. non baciai nessuno però mi feci vedere nuda da Daniele: ero in una cabina a cambiarmi costume e lui mi aspettava fuori. Spogliata ho aperto la porta proprio per mostrarmi a lui ma ho dovuto richiuderla in fretta. Lo vidi trasformarsi in un mostro e mi presi paura. Quest’anno solo due o tre ditalini al giorno pensando a te che dovevi arrivare. Ecco, vedi, adesso di me sai tutto. A Bologna non ho ancora baciato nessuno. Tu invece… Non dirmi che…»

«Perché pensi che abbia un amore nascosto?»

«Lo so perché tua madre ha detto alla mia che venivi al mare con noi perché lasciato dall’amata, venuta da Firenze per darti l’addio. A te, poi, sarebbe crollato il sistema nervoso e avresti anche smesso di mangiare. Tutto questo sarebbe capitato solo la settimana indietro»

“Ma guarda te, la Vecchia cosa va a combinarmi!” Dovetti correggere un po’ quella versione e raccontai di Luciana. Naturalmente non era una lavoratrice del casino. Era solo un’antica fiamma un po’ troia che aveva scambiato due guzzate con vitto e alloggio per i due giorni che era dovuta restare a Bologna per lavoro.

«Poi fatto i suoi interessi ha ripreso il treno per Firenze dove ha un marito e un figlio. Non l’ho neppure accompagnata in Stazione»

«Mmh – fece, quasi convinta – e con lei cos’avete fatto?»

Minimizzai: «Bhe… ne abbiamo fatte due. Una per notte»

«Ah! E le hai detto paroline dolci?» Aveva preso in mano l’uccello e lo gestiva come un ostaggio mentre proseguiva quella sorta di interrogatorio.

«Ma che paroline dolci! Abbiamo guzzato»

«Giura che non le hai detto ‘ti amo’ o cose simili»

«Lo giuro»

«Le hai leccato la PIPPA?»

«Ma no»

«Giura» Giurai protestando.

«Le avrai fatto almeno un ditalino»

«Basta – sbottai – Giuro che non le ho fatto alcun ditalino. Abbiamo trombato, Sì! Quello l’abbiamo fatto!» e con stizza le tolsi l’uccello dalle mani girandomi su di un fianco.

«Non volevo ne farti arrabbiare ne rovinare questa notte che tutti e due volevamo venisse bellissima. Volevo solo conoscerti meglio ed entrare un po’ nel tuo mondo. Posso tornare nella mia stanza e possiamo riparlarne domattina» Fece per alzarsi e andarsene. La trattenni e la riportai verso di me.

«Sei stata troppo pressante. Non ho problemi a narrare quell’avventura. Mi sembra solo di cattivo gusto raccontare nei dettagli dove in quelle notti avevo mani, cazzo e culo. – la rgazza si chetò – E’ la nostra notte. Sarà sicuramente la più bella notte del mondo. Non guastiamola»

Anche se imbronciata, Monica si lasciò andare fra le mie braccia.

«Scusa ma mi piacerebbe conoscere come lo hai fatto con le altre così posso immaginare come sarà quando lo faremo noi»

«Tu ora come la immagini?»

«Non ho le idee chiare. In questo momento sarei per immaginarla come ha descritto la sua prima volta la Giasmina. Ma lei si definisce una troia depravata. Non so. Dammi tu delle idee»

In ognuno di noi stava tornando la passione che il lieve dissapore aveva affievolito. Ripresi da dove mi ero fermato: dal capezzolo sinistro che sapeva proprio di cioccolato. E visto che la serata stava indirizzandosi sulla reciproca conoscenza domandai se era una cosa normale.

«Ma no, ho provato ad impreziosire i capezzoli con una sfregatina di burro cacao tanto per aggiungere un po’ di esotismo»

Va te a immaginare cosa può frullare per la testa di un’impaziente verginella”

«Non è che hai impreziosito anche altre parti del corpo?»

«Bhe… sai… però… – era arrossita – Bhe, sì: ho provato con le labbra. Quelle sotto. La cosa mi ha talmente eccitata che mi sono bagnata tutta. Ho poi voluto assaggiare il sapore che era saltato fuori da quel miscuglio e mi son subito lavata la figa: era disgustoso»

Sdraiata sopra di me si muoveva con piccoli movimenti continui e quel leggero sfregamento di pelli regalava intensi brividi a tutti e due. Ciò coloriva la conversazione di un sensuale affanno. All’improvviso il suo strusciare si arrestò e: «Posso chiederti una cosa molto intima?»

«Ma sì. Dai.» Ognuno di noi aveva fra le mani il sesso dell’altro.

«Prima tu mi hai fatto un meraviglioso ditalino, Addirittura con tre dita dentro. Ho goduto moltissimo. Li hai sempre fatti in questa maniera alle tue ex? – e prima che le rispondessi – perché quando me li faccio da sola mi metto sì dentro anch’io una o due dita, ma il godimento mi monta col pistolarmi il grilletto. Vuoi che ti… che ti mostri come faccio?» E a gambe aperte innanzi al mio naso cominciò con le dita una danza con moto circolatorio sul suo vivace clitoride. Venne a gusto pronunciando il mio nome. E debbo dire che è una grande soddisfazione. Anche se ravvivò il ricordo della medesima performance che mi aveva dedicato Luciana.

Una pugnetta ben fatta

Tolte le dita dalla propria figa lei pareggiò il conto con una pugnetta fatta proprio a modo. «Te lo strozzo… Te lo strozzo» fu il refrain che accompagnò la sborrata che volle osservare da vicino senza preoccuparsi se qualche stiattino arrivava fra i suoi capelli.

Poi davanti al povero cazzo che dopo lo sguazzino si era ridotto al minimo ebbe queste parole: «Non avrei mai immaginato che la mia piccola mano potesse ridurre un susamello così a un blacco per la polvere!»

«Certo che hai una mano da pugnette che sa il fatto suo»

«Non vuoi sapere dove ho imparato a farle?»

«Fà mò té»

«Dalla pagina ventotto alla trentatré di “Les Nuits de Jasmine”, il libro che ti ho fatto vedere oggi»

«Si potrebbe dire che per diventare una pugnettara di prima categoria la teoria è indispensabile»

«Si vede che sono portata!» e tornammo a fioccarci. Di tanto in tanto la sua mano controllava se l’oca avesse mai ritrovato la forza di levare la testa.

«la Jasmine ha un amante che dopo che l’ha guzzata le passa l’uccello nel culo e ancora, dopo essere venuto, gli viene un’altra volta nella pippa… Può essere vero secondo te»

Una vocetta piena di desiderio

«In un romanzo sicuramente. Nella realtà è più difficile… Credo che ci voglia un gran allenamento»

«Sarà senz’altro così – S’abbassò e baciò la cappella dicendole – Tranquillo Giulio che appena avremo dato il suo avere al coperchino ti faccio un allenamento che neanche Coppi[31] se lo può permettere: mattino… pomeriggio… sera e notte» e ridemmo a quattro ganasce.

«Io però non t’ho mai detto che il mio cazzo si chiama Giulio?»

«Jasmine, nel libro chiama tutt’i cazzi che smanazza “Pupù”. Ma lei è francese… poi, ha più di un uccello da tener badato. micca si può inbalzare con i nomi? – Giù a ridere e giù un’altra volta a baciarlo. Lo scappellò con studiata lentezza cercando nei miei occhi scintille di piacere, per poi dare di lingua al cordone della cappella. E, prendendo fiato mi spiegò anche che – Jasmine fa sempre così con i cazzi che pompa… E se anche noi gli dessimo un nome? Tanto per poterlo chiamare se ce ne fosse mai bisogno?»

Mi venne un’idea:

«Lui ha già un nome, si chiama Carlo-Carlo»

E qui mostrò già un piccolo accenno di gelosia:

«Chi gli ha messo questo brutto nome»

«Gliel’ho messo io. Perché?»

«Se glielo ha messo una di quelle troiette che te l’ha data lo cambi subito»

«Ti dico che gliel’ho dato io» fui irremovibile.

«Carlo-Carlo non sarà micca un nome da cazzo?»

«Il cazzo è mio e lo gestisco io. L’ho battezzato così e il nome resta così!… Prova a chiamarlo»

Lei gli andò vicino e con una vocetta impastata di tira-tira:

«Carlo… Carlo-Carlo…»

Così ben duro e incordonato

azidóll… neppure se gli avessero dato un’elasticata sulla cappella! l’oca si eresse con uno scatto

«Oh Carlo, che bravo uccello sei!» e lo prese un po’ in bocca. Proseguì con un gioco pericoloso: cominciò a sfregare su e giù la punta di quell’arnese fra il taglio della figa. Sentivo il paciugo che fioriva dalla crepa mentre le baciavo il collo, dietro alle orecchie e le pistolavo le tette.

Lei stava già andando fuori dallo sparadello. Ansimava, faceva dei sonori gnicchi e cucciava il taglio, voracemente aperto, contro la spingarda.

La figa era calda e bagnata al punto giusto. Una golosità! Ancora quattro o cinque sfregamenti e anche il mio uccello le sarebbe scoppiato contro. Forse con qualche rischio di impregnarla.

«Chi ha più testa la usi!» Fu il monito del pronto intervento di Carlo-Carlo.

Le feci smettere quella melina e mi misi con la faccia sopra la sua pippa laccando all’impazzata. Partirono pianti che avrebbero svegliato un palazzo. Lei però capì subito che non era il caso di continuare e ovviò prendendo in bocca l’osviglio. Una girandola di movimenti, cambi di posizione e sfregamenti che aumentarono l’eccitazione. Ancora qualche pompata e l’uccello Carlo-Carlo si mise a sbruffare facendomi provare scramlizzi immani.

Ci sganciammo. Monica riversò tutto quello che aveva in bocca sulla mia pancia. Da un suo sguardo bellicoso capii che non era finita. Si spiegò baciandomi: «Jasmine dice che un sessantanove deve sempre far venire tutti e due» mi prese con decisione la testa e la condusse ancora contro la bernarda. E lì la tenne spinta finché non esaurì il proprio sguazzino. Decisamente il godimento è contagioso. Tutti gli spasmi di quel corpo ancora fanciullesco, quel saltare e agitare il bacino, assieme agli umori che stavo direttamente assaporando avevano ricaricato il mio coso. O meglio non gli era stato permesso di afflosciarsi come merita ogni buon cazzo dopo un vibrato bocchino.

Me lo presi in mano e lo mostrai a Monica così incordonato come si presentava, con un’espressione di vago sconcerto.

«State tranquilli – sia rivolta a me che all’erta prominenza – ci penso io a smorzarlo» Lanciò un grido di gioia e la sua bocca riprese possesso del glande.

«Oh Berto, quanto ti voglio già bene… solo dopo un giorno!» concluse spremendo la cappella con la lingua contro il palato. Asciugò poi l’oca con un lembo del lenzuolo.

Finale pirotecnico

Posso assicurare che l’antico detto “Val più la pratica della grammatica” lascia molto a desiderare proprio perché grazie ai racconti di Jasmine, la Monica mi aveva fatto un servizio ben superiore agli yes sir[32] dell’Olga di via Belmeloro . Il finale, poi, poté dirsi pirotecnico. Dove la sua maestria stava nel ritardare l’evento ogni qualvolta giungevo al punto di eiaculare. Il godimento cresceva: «Sì… sìì… sììì… sìììì…» e si fermava a tirare il fiato. Poi tutto riprendeva.

Così per tre volte. Poi la quarta… indescrivibile! Urlai osannando la mia carnefice. E ho continuato a urlare di gioia mentre lei, esterrefatta, cercava di moderare la mia chiassosa esuberanza con innocenti atti e parole di tenero affetto.

Mamma, nella stanzia a fianco, batté sul muro per farci capire che stavamo esagerando.

«Ti ringrazio Carlo-Carlo!» dissi e anche Monica lo fece. Lei, senza sapere cosa voleva dire quel nome per me.

I nostri sguazzini avevano domato la nostra svarzura e così caddi in un beato sonno.

Monica invece no.

Rimase lì con i suoi occhioni aperti a rimuginare tutto quello che aveva vissuto. Tutto in un solo giorno.

La Veronica

Nella stanza accanto la Veronica, mia madre, scorreva nervosamente il testo del libro che si era portata dietro per le vacanze. Di tanto in tanto le giungeva il nostro ansimare con tutto il contorno di dolci bramosie: «Mo da com’è duro mi sa che ti sto piacendo da matti»… «Te la mangerei tutta» Poi il metallico rumore della rete del letto che per non soccombere agli assalti della nostra passione stava ben appoggiata alla parete convertendo in sonori colpetti contro il muro tutto il nostro movimentato erotismo. Cosa che aggiungeva angoscia alle preoccupazioni di Veronica.

Se non che, stando a un successivo racconto che mi fece lo spiritello Carlo-Carlo…

La Veronica aggiungeva al brano che stava leggendo le supposizioni che le suggerivano gemiti e sospiri che oltrepassavano il divisorio: ““Ma se guardava Carla, la faccia gli si infiammava come una lanterna: avrebbe voluto afferrarla, abbracciarla, prenderla su quel divano, in quel momento stesso. Questi appetiti di riflesso aumentavano il suo risentimento contro l’amante; si ricordò della scena di gelosia che Mariagrazia gli aveva fatto la sera avanti, e gli venne una stizza senza pietà. “Tua madre” disse bruscamente a Carla, “è un’oca di prima forza.““[33] .. «Oh, Berto… Non volevo mordertelo… ci ho solo preso contro con i denti… Oh, che sbadata! Mi perdoni? Te lo faccio di nuovo. Vuoi?» Poi di nuovo il silenzio rotto dal solo mio ansimare che si concludeva con «Che Dio ti benedica». In fondo il suo Berto è rispettoso della religione.

Di mia madre non conosco molto della sua vita privata e debbo sempre ricorrere ad informazioni che mi pervengono da quel ficcanaso di Carlo–Carlo che da fantasma di categoria superiore per l’affidamento e il sostegno delle famiglie, può accedere al gigantesco archivio dell’Aldilà

In questi tre anni di vedovanza la Veronica non ha mai voluto riprovare il piacere di essere stretta fra le braccia di un uomo. Ancora in età in cui si può esibire con orgoglio un bel corpo femminile non ha mai colto gli inviti di colleghi e amici per una serata un po’ diversa dalle altre, senza i libri di cui è divoratrice e fuori dalla bella casa che cura con passione. La mia mamma è solo casa e lavoro. Orgogliosa della sua classe di Economia domestica in un prestigioso collegio femminile.

Quel trambusto però in cui era coinvolta anche carne della sua carne la stuzzicava e, detto più schiettamente, ne veniva coinvolta nell’eccitazione.

Aveva chiuso il libro ed era scesa dal letto. Aveva indugiato innanzi al grande specchio dell’armadio osservandosi con un certo piacere nel suo desabillè notturno. Chissà? Forse immaginando le mosse di Monica nel darsi a suo figlio, si era sfilata la sottoveste, che era poi l’unico capo che portava addosso. Lo specchio le aveva restituito l’immagine di una provocante nudità: tette ancora sostenute, nessun ingorgo di grasso e un culo asciutto e ben tornito.

È sì in forma la mia mamma e ai suoi quasi cinquant’anni si potrebbe applicare uno sconto fra i sette e i dieci anni.

Si era guardata attentamente davanti e di dietro e con la mano aveva messo ordine ai peli in mezzo alle gambe.

Subito l’aveva rifatto un po’ più lentamente… E rifatto ancora. Un sospiro profondo.

Per un attimo gli occhi le si erano socchiusi per una riscoperta sensazione di piacere.

Aveva spalancato le persiane della finestra lasciando entrare il venticello del mare e spento ogni luce. Seduta sul letto aveva continuato a esplorare quella zona che da troppo tempo era relegata solo al pisciare.

Dalla stanza accanto adesso provenivano piccole risate e languidi borbottii. Sulla bocca le si era disegnato un dolce sorriso. La prima volta che aveva goduto con il suo Evaristo era stata quando i suoi di lei avevano invitato a pranzo Evaristo, il filarino, per conoscerlo. Era una domenica di giugno.

Lui si era presentato a con un mazzo di fiori per la madre, una buona bottiglia di vino da bere tutti assieme e un lezioso bouquet di fiori del bosco per lei. Era stato un pranzo molto conviviale con lui che, faina! si era sperticato in lodi per le lasagnette dell’ipotetica suocera.

Quel giorno il pranzo si era concluso verso l’una e mezzo quando Il futuro nonno Ersilio li aveva lasciati: alle due allo Stadio iniziava la partita del Bologna con il Pro Patria.

Con Veronica ed Evaristo, per il dolce, era rimasta solo Mafalda. Dopo una mezz’oretta avevano bussato alla porta «Mafalda… Mafalda… Il babbo… Il babbo si è sentito male ed è caduto in terra ed io sono sola in casa…». Mafalda era prontamente accorsa e i due piccioncini si erano trovati soli. Da lì a pochi istanti le loro bocche si erano unite e così i loro corpi, in un abbraccio di grande passione. Evaristo non si era lasciato sfuggire l’occasione e birichèn più che mai, ne aveva approfittato per sollevare la gonna dell’amata e mettere mano alla sua recondita intimità. – Carlo–Carlo me l’ha raccontata così. – Veronica non se l’aspettava ma nulla ebbe a lamentarsi. Anzi, aveva favorito in ogni modo quell’attacco, appoggiandosi saldamente a un muro.

«Aspettiamo un’auto di piazza e portiamo il vecchio Morganti all’ospedale. Debbo andare anch’io, non posso certo lasciare sola la Lidia – era tornata mamma Mafalda – voi fate i bravi. Fra un paio d’ore tornerà anche Ersilio. Ci scusi bene, Evaristo. Magari domenica prossima riusciamo a stare assieme con più tranquillità. Il Bologna gioca fuori casa. L’aspettiamo.» Si era infilata le scarpe e una giacca e se n’era andata.

Quell’assalto improvvisato di Evaristo e quel ditalino troncato a metà, avevano fatto scoprire a Veronica un mondo nuovo. Così rimasta padrona della situazione aveva preso per mano il moroso conducendolo nel posto deputato per continuare quelle esperienze fino a quel momento solo abbozzate.

Quel giorno non si erano risparmiati niente. Tre mesi dopo convolarono a nozze e il resto è scritto sul mio certificato di nascita.

Con quel ricordo davanti agli occhi a Veronica sfuggì un sorriso e una lacrima. Le mani avevano continuato a darsi da fare fra le cosce e adesso anche sul seno.

Dall’altra parte del muro, nitida era giunta l’implorazione: «Madonnina… Madonnina… fa che lui qui tenga botta e continui fino a domattina» Un sorriso amaro si era disegnato sul volto della Veronica “Quante volte ho usato la stessa implorazione quando il piacere mi faceva andare nei balilla” Quell’invocazione dall’esito molto improbabile assieme alla reminiscenza che l’aveva accomunata alla Monichina aveva fermato quel lieve accarezzare la folta macchia scura che ornava il suo basso ventre. Un divertito scoppio di risa, aveva fatto spallucce a se stessa e al pensiero che reprimeva il continuare con la fornicazione. Si era messo in bocca le dita con cui si era toccata fino a quel momento e distesa sul letto aveva dato ritmo alle sue mani riappropriandosi del piacere di un solitario ditalino.

Il giorno che lui-deciderà di farmi saltare il coperchino

A Monica piaceva immaginare che uno scrittore come Leccon l’avrebbe descritta in situazioni ad alta intensità erotica. Innocente viatico ad una masturbazione. Tema che poi avrebbe descritto minuziosamente essa stessa e raccolto in quaderni privati tenuti ben nascosti.

Anche in quel momento le sarebbe piaciuto avere lì la sua penna ad inchiostro rosso e il suo quaderno. Proprio quella notte e con ancora addosso l’odore dello sperma del suo neo-amato, avrebbe finalmente potuto raccontare la realtà al posto dell’immaginazione. Bestemmiò. Cosa che non le capitava mai di fare.

“Quando lui-quì si deciderà a farmi saltare il coperchino voglio avere il quaderno sul comodino”

Da un po’ la Monica passava molto tempo chiusa nella sua stanza a leggere e scrivere. Cercando di non incuriosire sua madre. Che, se avesse mai visto quello che leggeva o che scriveva la sua bambina l’avrebbe sicuramente spedita in un collegio di suore.

Quella notte per lei era troppo importante e non poteva non aggiornare i suoi appunti. Voleva fermare sulla carta il suo stato d’animo di fronte al primo cazzo della sua vita. Un domani avrebbe potuto confrontare la trepidazione con cui si era accinta alla sua prima pugnetta. Rilassarsi, quasi assopirsi, sotto le carezze di lui. Che bello, farsi pistolare per poi gettarsi a capofitto in un bocchino fotonico ed esplodere con un sessantanove liberatorio! Quegli stessi atti che avrebbe replicato per tutta la vita. E ora che aveva incominciato ad assaggiarne qualcuno ne era proprio convinta. Per questo voleva descrivere quella sequenza di attimi vissuti tanto intensamente mentre sprigionava ancora quel benefico calore che l’aveva pervasa per tutta la carnale tenzone.

Non era una sua elaborazione. Faceva parte di una serie di suggerimenti e raccomandazioni che il maestro Roland Leccon aveva racchiuso in un prezioso manualetto per apprendisti letterati sporcaccioni e che la Gloria aveva portato da Parigi: “cogliere nel preciso momento in cui si compie, tutti i cromatismi che si autogenerano quando si crea un bocchino o si è protagonista di una guzzata”. Questa la sintesi che racchiudeva tutta l’etica che il grande didatta consegnava alle nuove leve di porno/scrittori

A rischio di fare padella e di far saltar fuori la nostra tresca

Approfittando del mio russare, la Monica indossò la camicia da notte per andare a prendere il suo intimo e prezioso quaderno.

«Mi sa che sta notte, fortunatamente, stia dormendo solo la Norma» Appena fuori dall’uscio aveva incucciato mia madre che prillava per casa, innervosita dai nostri smergoli d’amore.

Nel trovarsela innanzi la Monica si bloccò e mia madre l’abbracciò:

«Monica, Monica cosa succede?»

«La più bella cosa della mia vita» rispose con orgoglio.

«Come ti capisco!… Ma sei calda come una brace… Non avrai la febbre?»

«Stia tranquilla, Veronica, sono calda perché sono ancora in calda…» e risero assieme.

«Và… và ragazôla che è questo il tuo momento!»

Mamma, che di Monica è stata anche la santola della cresima prova un grande affetto per questa cinna e scoprire che si univa carnalmente con il proprio unico figlio che reputa un bravo ragioniere di sani principi, un po’ la preoccupava ma si era messa subito ad elaborare un piano per ufficializzare tosto la situazione e tramare perché la facessimo nonna in ancor giovane età.

Queste mie rimembranze

Senza il minimo rumore la Monica andò nella sua stanza e cominciò a riempire le pagine del suo quaderno con una scrittura piccola e sottile che solo lei avrebbe potuto poi decifrare.

Aveva cominciato con una minuta descrizione del mio arnese “A cui Berto ha dato un brutto nome, Carlo-Carlo. Berto dice anche che è molto intelligente. In effetti, anche se è solo un giorno che ci conosciamo risponde prontamente alle mie sollecitazioni e dimostra tanta gioia quando mi procura voluttà. Così gli ho dato carezze, pugnette, baci e bocchini. Lui, proprio come dice Jasmine, mi ha ringraziato con un generoso getto di genuino sperma dal vago sapore di nocciola, forse mandorla. Primizia che mi sono gustata tutta. Non vedo l’ora di raccontarlo a Gloria che per invidia sicuramente dirà: “Ma dai! Non può essere. E‘ solo una delle solite fantasie che fai nello spararti un ditalino”. Ma a dirglielo aspetterò che succeda qualcos’altro. Così schiatterà d’invidia. Credo proprio che Berto sia cotto di me. Le sue mani subito dopo il primo bacio hanno creato arabeschi di piacere in ogni parte del mio corpo. Ha dita agili e affusolate, sicuramente per la dattilografia che ogni ragioniere pratica. E Berto è un ragioniere! Quando le ho sentite infilarsi nella gemma ho capito che la felicità era lì a portata di dito. Hanno toccato tutto quello che può scatenare brividi. Ecco la felicità! Questo però è stato una minima parte di quello che ha poi suscitato la sua lingua: mi si sono rizzati anche i peli attorno al buco del culo. E ha voluto leccare anche lì. Meno male che nel pomeriggio mi ero rinfrescata la memoria con il giusto episodio della Giasmina e così gli ho potuto dimostrare che in fatto di sessantanove ne sapevo più io.””

I diari di Monica sono, ovviamente, la cosa più segreta che Lei ha, ma non possono certo arrestare la curiosità di un ectoplasma sporcaccione come Carlo-Carlo che per vantarsi di quanto erano preziosi i suoi servigi mi procurò la copia di questi intimi stralci, così posso aggiungerne brani a queste mie rimembranze.

Bollori di begonia

Saziati gli appetiti letterari la Monica andò in bagno a rinfrescare il villoso triangolo, poi via, di nuovo dal suo bell’addormentato a vedere se fosse mai avanzato un arsuglio di vigore.

Sì, perché mettere giù a parole quanto appena conclusosi aveva rimesso in moto un certo bollore nella sua begonia.

E sull’uccello uno schizzo d’Olio Bertolli

Ricordo di essermi svegliato che lei stava dicendo al mio uccello «Carlo… Carlo-Carlo.. lîvet![34]» e il bello fu che in un attimo questo si drizzò.

Grata del concreto aiuto di quella faina di Carlo-Carlo, la Monica stemperò il suo entusiasmo baciando ripetutamente quello che per lei era il Cazzo Carlo-Carlo mentre si pistolava il grilletto.

La sollevai di peso per appoggiarmela a gambe aperte sulla bocca.

piluccai… che piluccai… fin che non sentii che dava i numeri. A quel punto, su consiglio di Carlo-Carlo le insfilzai il ditone nel brevo.

«Ói… Ói… Ói… ecco quello che ci voleva… Dai Berto… vienimi dentro in un qualche modo!»

Come una saetta mi fiondai giù in cucina e dalla bottiglia dell’Olio Bertolli ne feci cadere qualche goccia sull’uccello.

Lei intuendo che sarebbe successo qualcosa di importante mi aspettava a gambe aperte masturbandosi.

Occhi socchiusi e sospiri corti e sensualmente sonori.

Sfregai più volte la cappella fra le gonfie labbra della figa. Soffiava come un marasso in amore. Fece per prendere lei l’oca in mano e sono sicuro che l’avrebbe spinta in fondo alla bartocca, ma una voce mi gelò

«Non siam micca d’accordo così!»

Era quasi un ordine. Roba da smorzare l’uccello di un ergastolano che è al casino in occasione della prima licenza premio. Ma non successe.

Ripresi la gestione del Billo e provai di uscire da quella ghignosa situazione nel più onorevole dei modi.

Non potevo certo mollarla lì con la caldaia già in pressione. Bisognava trovare qualcosa che l’eccitasse senza andare attorno al coperchino.

Così, se un buco era impraticabile ce n’era un altro che si poteva sempre aprire.

Con un’unica presa la ribaltai, la misi a gattoni e con dolcezza le allargai le chiappe baciandole il tafanario. Furono poi due dita della mano destra ad andare in avanscoperta. La mano sinistra manteneva umida la crepa.

Ci fu un profondo sospiro e ne approfittai per cavar via le dita e impuntare la cappella.

«mo s’è bella calda!!» sospirò lei e io diedi il primo cuccio.

«ói…» e ne cacciai dentro un altro pezzo.

«Ti faccio male?» Anche per me era la prima volta.

«Mi brucia un po’ ma non preoccuparti… dâi… dâai… vai pure…Mmh! – un gnicco -…Vai… vai… vai

La resistenza di quel culo fu tenace per non dire eroica e mi ci vollero ancora diversi colpi per infilarlo tutto.

«auf, chèldi! – si lamentò… poi – dai… dai… che mi piace da matti!» Da quel momento, per tutto il tempo dell’inculata ebbi il riguardo di stuzzicarle la figa.

Lei aveva iniziato una sorta di danza ondulatoria contraendo le natiche. Trovai subito la sincronia con i suoi movimenti e dopo un affondo vigoroso raggiunsi l’apice e svuotai l’ oca nel profondo del suo budello.

Dalla finestra aperta, in lontananza, il rumore del mare che nonostante la notte serena, stava ingrossando.

«azidänt… hai anche la sborra bollente! Dio mé mâma mi brucia da per tutto…» e strinse forte ogni muscolo che natura aveva messo lì a protezione del culo.

Quando estrassi l’ocarina dal culo era proprio un’ocarina ridotta a uno straccio.

Pur lamentando un fastidioso bruciore la Monica mi disse di essere felice per quell’esperienza che non si aspettava. «Anche se Jasmine – aggiunse – se lo fa mettere sempre nel culo a conclusione di ogni suo incontro amoroso»

Nel corridoio trovai mia madre che fumava e nel bagno la crema, sperando che potesse dare sollievo al postrone della mia bella Momò.

Saltò fuori la voce di Carlo-Carlo per farmi sapere che «Mi avete fatto sudare quattro camice… Che non succeda più!» e qui sentendo mia madre di punto in bianco esclamare senza ragione alcuna «Ma non stanno capiti» ebbi la conferma che anche lei aveva un filo diretto con Carlo-Carlo.

A forza di darci va poi a finire che Berto te lo caccia nel culo

Un’orrenda pendola in legno e marmo, unica suppellettile di quella stanza, emise due flebili rintocchi

Sopra al letto, la Monica, distesa con il culo per aria, sperava che l‘arietta estiva che entrava dalla finestra glielo rinfrescasse. Intanto scriveva sul suo intimo quaderno:

«Volevo segnare tutte le sensazioni che mi hanno fatto gniccare, invece, guarda qui cos’ho finito per scrivere: “”Sono le due e Berto mi ha rotto il culo. La sua fava era calda, la sborra di più. È stata una meravigliosa esperienza da ripetere!”” – In quella pagina c’era solo questa frase. – È la prima volta che faccio vedere una pagina del mio quaderno a qualcuno»

Ancora qualche ciricocchino poi mi misi a tergerle il gentile con la Nivea.

Mi impegnai a lungo a darle sollievo e con piacere notai che quel lisciare e massaggiare faceva bene anche al mio cazzo che da spladga era diventato bazocco.

«Come sta Carlo-Carlo?» domandò premurosa la Monica, intendendo il Carlo-Carlo cazzo.

«È già dietro ad alzarsi» e glielo appoggiai fra le chiappe nel massaggiarle le spalle «Sai, che anche bazocco è un bel susanello… Debbo dire che i tuoi massaggi mi hanno fatto venire una più fatta sonno… Mettiti in modo che Carlo- Carlo stia fra le mie chiappe che poi domani ti dirò che sogno mi ha suscitato. E magari lo scrivo anche sul quaderno»

Sbadacciò ma prima di lasciarsi andare fra le braccia di Morfeo mi volle dire che:

«Prima quando chiamavo Carlo-Carlo perché tirasse su la testa, ho sentito una voce nella mia testa che mi diceva: “Ma non sei ancora stuffa?… Va poi a finire che dai che té dai Berto te lo caccia nel gnicco”… E io ho pensato, mo magâra! E sono stata esaudita» S’addormentò di pacca

Col bombardino rotto non riesco più a trattenere le bronze

Ci sono piccole abitudini che hanno grande importanza per la buona salute del nostro cervello.

Per me, ad esempio, è molto importante poter parlare col mio uccello quando piscio: mi perdo a guardarne il getto e da come si comporta ne traggo gli auspici per quanto ho in ballo in quel momento. Dopo tutto quello spaciugare e pistolare con la Cocca-Bella una pisciatona, oltre che essere la scusa per far tirare il fiato all’uccello, era anche l’occasione per trarre gli auspici dalla spinta pisciatoria.

Rincuorato dal dorato spruzzo e in sverzura più che mai, tirai giù l’acqua e lemme lemme feci ritorno nella stanza della passione, rimuginando la scuffia che in poche ore questo coperchino di sedici anni stava calando sulla mia testa e sul mio cuore. Per non parlare del cazzo che sembrava essersi dotato di un congegno magnetico per cui solo allo scoprire, da parte della ragazza, di una zona pudenda non lo si teneva più e si proiettava verso quelle mete erogene, ovviamente trascinandomi.

Se l’avevo lasciata con gli occhi socchiusi e un angelico sorriso di beatitudine stampato sul volto, la ritrovai che senza grazia ne ritegno se la ronfava della grossa. Trasformando la stanza del nostro amore in una segheria. Mentre a un palmo dai suoi verdi occhi mostravasi un’oca ben in tiraggio che non vedeva l’ora di tornare a sfogarsi.

Nonostante queste basse considerazioni non potei che incantarmi innanzi a quell’armoniosa nudità che tanto odorava di innocenza. Un’immagine ben in contrasto con la di lei determinazione a provare ogni sguazzino del cazzo.

In tutta sincerità, fra noi due, il coperchino ero io anche se andavo, come ho già detto, spesso al casino.

Lei che il coperchino, almeno stando ai detti, l’aveva ancora, teneva una conoscenza sessuale teorica assai profonda e quando aveva potuto mettere mano al mio pistollo aveva saputo suonarlo neanche fosse un clarino. E, tanto per dire: già alla seconda occasione, mi aveva sbocchinato alla grande, ancor meglio dell’Olga (prosperosa quarantenne balcanica), dell’Unione (via dell’U.), maestra del succhione con l’ingoio, che io avrei santificato proprio per questa sua specialità. Per non dire del recente masticone resomi da Luciana e ancora tanto vivo in me, che si era fatto dare del voi. Previdi quindi che con un po’ di allenamento sul mio pezzo, unito al suo sapere, nel giro di poche settimane la ragazza avrebbe surclassato le due professioniste facendo piazza pulita di tutti i ricordi e le nostalgie ancora ben presenti nella mia mente.

Quello che ci mancava ancora erano le posizioni del chiavare. Ero però sicuro che lei avesse già studiato le mosse per liberarsi dal coperchino come sturacciare una bottiglia di lambrusco.

Da queste considerazioni fui distolto dai movimenti della mia bella addormentata che tacava ad uscire da un sogno che non poteva che essere un sogno erotico dato che fra una stiracchiata e l’altra, la sua mano andava a bordigare nella patacca. E a forza di toccarsi, il suo faccino rifletteva sia il godimento che la beatitudine.

Sbatté le ciglia e si svegliò. Io, con il mio monumento duro fra le mani ero già lì innanzi a lei, pronto a soddisfare ogni sua esigenza.

«Oh Berto, con che bella visione mi vieni a svegliare!» Un sorriso le si allargò sul viso mentre allungava la mano per fare una carezza ai sonagli.

Ma purtroppo, con l’ultimo cambio di posizione, la celestiale donzella mollò una tale scoreggia che la fece tremare ma anche arrossire per l’imbarazzo.

Per scusarsi disse ciapando il billo fra le mani:

«Da quando mi hai stiancato il bombardino non arrivo più d’ora a trattenere le bronze». in uno spillo provvidi a fermare la fuga gassosa con adeguato stupaglio.

«Una bella fantasmagoria!» fu il commento di Carlo-Carlo. Sempre in zona con la speranza di slumare una qualche attività di bocca o di culo. Al momento unici buchi aperti al traffico.

Con Berto ci siamo detti tante cose

Erano forse le tre quando la Monica senza neppure aver indossato la camicia da notte, così nuda e cruda, aveva azzardato ad attraversare il corridoio per rientrare nella sua stanza. Respirando a pieni polmoni l’aria della notte, nonché l’aromatico fumo di una Camel. Appoggiata al davanzale della finestra, c’era mamma. Insonne per via di quell’auto-godimento che si era procurata e che aveva scoperchiato l’urna dei felici ricordi.

«Vai tranquilla – rivolta alla guardinga ragazza – di Norma si sente il continuo russare anche da qui» e le strizzò l’occhio ribadendo la sua complicità.

«Grazie Veronica» e si gettò fra le sue braccia. Voleva anche dirle tante cose ma sintetizzò il tutto in «Con Berto ci siamo detti tante cose»

«Lo so. Le ho sentite tutte anch’io. Per fortuna che di qui non è passato nessuno» Malgrado fosse una notte senza luna e buia, mia madre mi disse poi che Monica era arrossita.

Le statistiche del ragioniere

Anch’io bramavo il sonno. Un buon sonno ristoratore. Quello che ti risveglia rigenerato e pronto a ripetere le prodezze del giorno prima. E una delle ragioni che non riuscivo a prender sonno era che stavo arrovellandomi per costruire un piano per avere tempi e spazio per approfondire i ragionamenti con la Monica. Buone idee non me ne venivano e io prevedevo che il giorno che stava per cominciare sarebbe stato impegnativo. Un po’ gironzolai per la stanza poi mi concessi una sana pisciata.

Sul davanzale del cesso c’era ancora il rotocalco con le foto di Abbe Lane… “e se mi sparassi un raspone?” A volte funzionava. Così calai i boxer e misi mano a… ma l’intrepido pene che tanta gloria mi aveva procurato in quella serata rifiutava di fare lo straordinario. Provai diverse tecniche di rianimazione. Mi guardava e pareva dire “Poi… per che cosa?”. Insistetti finché non si mobilitò anche il solerte ectoplasma: «Guarda che i cazzi son pagati a cottimo. Micca a ore. E lui qui ha già consegnato il lavoro della giornata»

In effetti…

Tornato sul letto in me prevalse l’animo del ragioniere, con tutti i suoi pregi e difetti, fra cui la statistica. Per cui in quella giornata con Monica calcolai che avevo arricchito il mio patrimonio erotico del 100% per quanto riguardava i sessantanove a cui avevo partecipato fino ad allora; del 200% per i bocchini in cui ero esploso. – Dalle percentuali erano escluse tutte le attività ottenute a pagamento o con professioniste del settore eros-assistenziale. Luciana compresa – del 400% per i cunnilinguo praticati; del 200% per le inculate; solo del 97% per i ditalini e pugnette in entrata e in uscita. Tanto per usare un linguaggio bancario corretto. Quindi soddisfatto per i risultati raggiunti mi addormentai con orgoglio.

Da mé, tuo padre il tafanario non l‘ha mai cuccato

Decisamente il giorno dopo fu un giorno ancora più incasinato.

Alle sette precise mia madre mise la testa nella camera:

«Su, su, che ho già preparato una buona e sostanziosa colazione. E mi sa che ne abbiate bisogno»

Monica andò a far toeletta nel bagno e io mi feci la barba in camera mia.

Mamma mi venne dietro e appena ebbi le guance insaponate mi chiese con noncuranza:

«Mo soccia che plucco avete fatto stanotte. Anche un sordo avrebbe capito quello che stava succedendo Non sono riuscita a chiudere occhio dalla paura che quella matta della Norma si svegliasse e venisse su a vedere. Sai te che scenata! Secondo me avrebbe chiamato i carabinieri!… Tieni sempre a mente che è una cinna che non ha ancora compiuto diciassette anni!»

«E te verresti coinvolta come favoreggiatrice. Il Carlino ne parlerebbe: “Vedova di un dirigente di banca e suo figlio portano alla perdizione…” e addio alla buona reputazione della famiglia» tanto per smorzare la predica.

«Lascia perdere il Carlino, té… Ti sono venuta dietro per dirti… Ah sì… ecco: ho avuto di nuovo l’impressione che… quello che ti ho raccontato l’altro giorno… Verso mattina una strana follata di vento mi ha svegliata del tutto ed è tornata quella voce che la s’arvîṡa a quella del povero Carlo-Carlo… e la si arvîṡa da bån, che m’ha detto: “È stata dura ma anche per stanotte il coperchino è salvo”… È vero? Non è perché sia curiosa e mi interessino più di tanto le sorti della verginità della Monica. È che questa storia della voce che mi informa in anticipo mi sconvolge –ciabattando verso l’uscio, aggiunse – Voglio proprio dirlo alla Susy che è andata fino in America per studiare la pissicologia»

«Proprio così mamma, l’imene di quella che tu dici cinna è ancora intatto. Per quella voce non preoccuparti è capitato anche a me sentire nella testa qualcuno che mi parla di fatti che mi riguardano»

«Son contenta per il coperchino. Ma tutto quel malippo… quelle suppliche a essere delicato? Quel dire “lo sento più grosso di come lo vedo”?»

«Lascia mò stare mamma»

«Lascio mò stare sì, mo da mè tuo padre il sedere non l’ha mai cuccato» e andò via col culo dritto»

Quei due indiavolati che per tutta la notte hanno chiavato

Un bel casino scoppiò quando la Norma, appena sveglia, in camicia da notte e giù di toeletta, venne a colazione.

Nella piccola cucina il profumo della brazadella che cuoceva nel forno rallegrava l’angusto ambiente. Ognuno provava qualche battuta sull’attesa leccornia. Addirittura mamma, artefice dell’iniziativa, mise in dubbio l’utilità di un buco solo nella brazadella auspicando che nel futuro si pensasse anche a brazadelle con ben due buchi. Trovai la battuta volgarmente allusiva per cui le feci linguaccia.

La Norma invece si dimostrava inarita: «… dico che è un’indecenza!… Una roba così non si può ne immaginare ne tollerare… Hai sentito anche Té Veronica, quei due scatenati che hanno chiavato fino alle due? … – fece poi caso che lì c’er’anche sua figlia e cambiò dizionario – … tutta

notte han fatto i loro porci comodi faceandosi sentire fino in piazza»

«Mo io no… – fece la Veronica, che è poi mia madre – e dire che son stata sveglia quasi tutta notte»

Si vede che avevi la finestra chiusa… mo guarda,… un fatto lavoro! Lei, poi, che doveva essere una ragazòla, molto giovane, faceva dei lamenti che parevano ululati… che anche un frate coglione avrebbe capito… T’ho da dire che in un primo momento – e guardò mamma – mi era sembrato che il casotto venisse da qui, dalla tua stanza… poi ragionando… – e si rivolse a me e a Monica –
E voi, avete sentito qualcosa?»

«Io ho dormito con la finestra chiusa» disse prontamente la Monica.

«Anch’io ho quest’abitudine» replicai

«Non è, mamma che la pillola che ti ha detto di prendere il dott. Bonaga per dormire ti fa fare degli incubi?»

«E mé, d’ardoppo, gliene ho sciolta un’altra nel bicchiere» mi confessò con una ventatina all’odor di menta, Carlo-Carlo.

«Té non dire cretinate, Manica… Ah… ma non finisce micca qui… Adesso quando becco Maldini, che chissà a chi ha affittato gli appartamenti che danno sul cortile gliela canto poi mè l‘antifona… micca perché non sappia cosa succede in certi momenti, ma un po’ di riguardo ci vuole… Bell’esempio per una ragazza come la mia cinna!» e si calmò tocciando la brazadella nel caffè-e-latte.

«Non farti il sangue amaro mamma, oramai è successo!»

La Norma masticava la sua colazione con un nervosismo tale che sbrodolava qua e là.

Quando le passò si rivolse a Monica e me.

Io a Berto gliel’ho già data

«Allora vi siete divertiti ieri sera al baladûr?»

«Ói» dissi, stando sul vago.

«È stata una sera indimenticabile, mamma! Anche il gelato è stato buonissimo!»

«Se volete – aggiunse la Norma – stasera al Bagno Pedrelli c’è una gara di briscola…»

«No, no mamma… quello che volevo dirti è che io e Berto stiamo proprio bene assieme»

«E allora, chi ha mai detto che lui non possa partecipare alla gara?»

«Non hai capito mamma: io e Berto stiamo bene assieme perché ci vogliamo bene… e vogliamo stare assieme facendo tutto quello che fanno i anbrûṡ …»

«Hai detto che vuoi mettere sù il moroso? Alla tua età e con gli studi che vanno così così?»

«Ma mamma, tutte le mie amiche hanno già il moroso»

«Se tutte le tue amiche sono delle vacche, tu sei un’altra cosa. Tu sei stata allevata con dei sani principi e prima dei diciotto anni e aver finito gli studi… Con tutti i sacrifici che fa quel pover uomo di tuo padre… Del moroso non se ne parla – la Norma era diventata rossa come un fuoco – Vedi cosa succede averti dato un dito? Sei già qui che mi vuoi prendere tutta la mano. Sai cosa ti dico, e inbezélla mé che non ci ho pensato prima: te, da sola… te e lui, non voglio più vedervi assieme… E micca perché Berto mi sia antipatico ma quando un ragazzo ha la sua età è sempre dietro a pensare di sfogare… sfogare… cosa… lo so poi mè… E quando trovano un’ocarotta di sedici anni come te non vedono l’ora di metterglielo in mano per poi fargli saltare il coperchino… E non dire che non t’ho mai messa in guardia: una ragazza senza il coperchino è una donna in pericolo. Perché se il moroso la pianta sarà sempre una donna piantata e al giorno d’oggi solo uno scartino si metterebbe seriamente con una che non ha più il coperchino. Hai capito oca d’una bazurlona!» e si lasciò andare di pacca su una poltrona e cominciò a brigare per accendersi una sigaretta.

«Io ti dico che a Berto voglio bene e lo vedrò quando e dove mi pare… E adesso che te lo abbiamo detto siamo già morosi e faremo tutto quello che fanno i morosi»

«Tè sei un’incosciente… zarucca e zuccona. Va subito nella tua stanza e guai a te se ti vedo un’altra volta sola con il signor Berto… E adesso vado anche a telefonare a rivolta a me – E badate bene voi, signor Alberti che se mi viene il sospetto che girate ancora intorno alla mia Monica io vi denuncio… Vi faccio venire a prendere dai carabinieri, il mio Girolimoni[35] »

«Provate a fare una roba così e io vi ammazzo» era intervenuta anche mamma, dandole anche lei del voi e mostrandole che aveva saldamente in pugno un coltello da cucina.

A quel punto la Monica saltò su, piangendo, ma con una improvvisa cavata peggiorò la situazione:

«Puoi dire e fare quello che vuoi, ma io a Berto gliel’ho già data e tornerò a dargliela come e quando mi pare»

Brutta vacca… troia d’una porcella

«Cos’hai fatto?»

«Si, gli ho già dato la figa… hai capito?… La figa! È da quando è arrivato che in camuffa ci guzziamo…» e scappò su per la scala chiudendosi a chiave nella sua stanza.

«Vieni fuori, brutta vacca, troia d’una maiala. Giura che quello che hai detto è vero… Apri questa porta e guardami negli occhi e tornami a dire quello che hai fatto. Perché io… io che ti ho fatto… io… ti posso anche disfare!» e ancora tutto un repertorio che sembrava non finire più.

Nello stesso momento saltò fuori l’aria fresca e il prezioso Carlo-Carlo «Prendi un lapis, un foglio e scrivi: “Nino Cavicchi, capitano d’aviazione in servizio all’aeroporto militare di Miramare, con sua moglie Malvina e due figli Gianni e Pippo di nove e tredici anni vive alla Pieve di Cento. Guarda caso ha una Fiat Millecento nera con targa BO22236 come quella dove sei stata vista ieri a Rimini fare porcherie in macchina in zona Ospedale. Per ora lo sappiamo solo io e il mio amico Carlo-Carlo… un domani… forse…”. Scrivi mò tutto questo su due biglietti. Uno te lo metti in bisacca, che può sempre venir buono, l’altro vallo a dare alla Norma» ancora innanzi alla stanza di sua figlia a cazziarla.

Carlo-Carlo svanì lasciando dietro di sé una scia odorosa all’anice stellare. Quello dei refoli speziati, un suo vezzo.

Un momento di debolezza

Mandai in giardino mia madre che senza dir beo si portò dietro lo scannino recuperato in cucina. Chiamai con imperio la Norma. Adesso impegnata ad abbattere quella porta a spallate e bestemmie.

Non diede ascolto.

Un’idea: «Norma… c’è qui un aviere in bicicletta che ha da consegnarvi un biglietto. Lo prendo io?» Fu una vigliaccata ma funzionò.

«Dov’è?»

«Lui è andato via subito ma mi ha lasciato questo» e le slungai il biglietto.

La ciambella di mamma è sempre stata un capolavoro. Me ne tagliai una fetta e mi versai un altro bicchiere di caffè.

La Norma intanto lesse, poi si lasciò andare di pacca su una sedia che gniccò.

«Questo è un ricatto! – e aggiunse sottovoce – Per un momento di debolezza!»

«Io quando ho un momento di debolezza mi faccio due uova di tagliatelle… Non ciuccio l’uccello di un capitano nella cabina ventitre» informazione dell’ultimo minuto dall’amico fantasma.

«Va bene. Cosa debbo fare?» capì che doveva rassegnarsi.

«Andate a domandare scusa a mia madre e andate in spiaggia assieme. Dopo che avrò consolato la Monica verremo lì anche noi e lì farete le vostre scuse anche a lei. Da stanotte mé e la Monica dormiremo nello stesso letto e quando verrà quel cornone di vostro marito gli direte che siete molto contenta che vostra figlia abbia messo su il moroso. Se lui gnicca avete tutti gli strumenti per convincerlo. Un’ultima cosa: col capitano dateci un taglio: siete troppo inbalzata per tenere coperta la tresca»

«Berto, ditemi una cosa: è proprio vero che avete sverginato la mî ragazôla?»

«Non fate caso a quello che vi ha detto lei: al cuarcén è ancora lì, tutto d’un pezzo al suo posto»

«Signore vi aringrazio! Berto, sei proprio un bravo ragazzo. Se vuoi puoi chiamarmi mamma. In fondo sei il moroso di mia figlia!»

Voglio essere solo la tua putana

«Manica, apri. Sono io… Il tuo moroso»

«Sei solo o con quella puttana della Norma?» e aprì

«Guarda che quella puttana della Norma è anche tua madre… Te saresti allora una figlia di puttana» smise di piangere e sul suo viso tornò quella spregiudicata allegria di cui avevo goduto durante i nostri ciappini.

«Sono mè la tua unica puttana! – Mi si attaccò al collo e alla bocca – … Dai Berto… guzzami… Cosa stai ad aspettare?… Adesso tutti sanno che ho perso il coperchino e per tutti sono già una vacca… mentre invece debbo patire per tenermelo ancora…»

«Intanto tutti sanno che l’onore ce l’hai ancora. L’ho giurato a tua madre…»

«Cos’ai fatto?»

«Sì, le ho giurato che sei ancora come lei t’ha fatto»

«Hai giurato il falso»

«ben mo cosa dici? A chi l’hai data prima di me?» chiesi con una certa preoccupazione.

«Sei proprio un patalucco! Volevo mettere i puntini sulle i: mia madre non mi ha fatto col culo rotto… che è ancora dietro a bruciarmi»

Mi spazientii «Ascolta mò cocca, per adesso tieni mò stretti culo e gnocca che ti dico come sono rimasto d’accordo con tua madre…» lei però non si dava pace.

«Per me è morta!»

«Fatti dare nel culo… zarucca! – stavo spazientendomi – … Con tua madre sono d’accordo che io e te siamo già morosi e potremo anche dormire nello stesso letto. Di tutto questo ci pensa poi lei a convincere tuo padre… Sei contenta adesso?» E feci per andarmene.

«Dove vai, oca morta?» e se la rideva.

«Oca morta la mia? Bella gratitudine! Dopo tutto quello che ha fatto per te?»

«Bene, allora… fallo. Se vuoi anche adesso» e tanto perché capissi fino in fondo si tolse la camicia da notte e calò la braghetta.

Non ero preparato a una così repentina eventualità.

«A dire il vero… così su due piedi … non so micca se…»

«Dai, dai, dai… pochi tani…» e lanbiccò lei in modo che le mie braghe cadessero a terra.

Povera cinna, che delusione provò quando si trovò innanzi un uccello fiacco e penzolante!

«Questo però in un momento così delicato non me lo dovevi fare. Dai, Berto prova a dirgli qualcosa tu…»

«Carlo-Carlo… – ma lui nisba – Prova te, a me non dà mai retta»

Lei si mise a posto i capelli, poi: una mano sotto i maroni, con l’altra teneva su la testa di quel mezzo cazzo. E:

«Carlo… Carlo-Carlo…» con una carineria tale che da sola avrebbe fatto sborrare un moribondo.

Si meravigliò anche lei: l’uccello cominciò a gonfiarsi innanzi al suo naso. Lei lo seguì mentre cresceva e si alzava, con espressione incredula, poi gli disse:

«Non lo faccio più… Te lo giuro… Comunque, grazie… per sta volta.»

Anch’io, che di quel nome sapevo più cose, mi parve un’instariaria.

«Cosa ti succede adesso che all’improvviso sei sbiancata?»

«Quella voce… quella voce… sempre quella voce… – stavolta era spaventata sul serio – è tornata per dirmi: “Oh, ragazzi, avete finito di sfruttarmi? Neanche fossi il ‘Viagra ’ che però non l’hanno ancora inventato»

Conoscendo il personaggio mi scappò da ridere dondolando in qua e là il mio bell’uccello tornato dritto e duro e che in t un spéll scomparve per un bel po’ nella bocca della mia fidanzata.

Brividi di ampio raggio mi si scatenarono lungo il filone della vita.

«Adesso mi guzzi!» fu la pressante richiesta, quasi un ordine anche se a bocca piena.

«Non posso… No, brisa… ho… ho promesso a tua mamma che avrei giurato anche in faccia a tuo padre che tu sei ancora…» era una balla ma necessaria.

«È così importante per te mantenere questi giuramenti?»

«Mo sì, vè! Tutti i giuramenti vanno rispettati»

Non disse più beo continuando a menarmi l’uccello.

«Se lo dici tu. Il fatto è che ti voglio già così bene che non riesco a non darti ragione – Mi venne vicina con la bocca. Aveva le labbra gonfie. Gli occhi scintillanti. Con la punta della lingua sfiorò le mie labbra e sommessamente – Hai voglia almeno di leccarmela?»

«Ói! Quello sempre. O vuoi fare un sessantanove?»

«magara con un dito a me e un dito a te nel culo?… La Jasmina lo fa sempre!»

«Un sessantanove con due dita nel culo fa settantuno. Vada per un settantuno!»

Ci rovesciammo sul letto ognuno all’incontrario dell’altro e subito sentii le sue delicate dita far breccia nel mio intonso culo. E anch’io apprezzai quel nuovo aspetto dell’amore. Solo che alla fine sballammo e divenne un settantaquattro: tre nel mio, due nel suo!

«Jasmine arriva anche a un settantasette, quando lo fa con Brigitte»

«Ma che porca!» misi le mani avanti, quattro mi sembrarono troppe.

Sei più maiale da morto che da vivo!

Carlo-Carlo saltò fuori mentre al cesso spingevo leggendo Tex Willer[36]:

«Mi fa male vedervi così disperati, te e la cocca. E specialmente lei. Ho provato a parlarne con il mio superiore ma è irremovibile. Domani però viene in ispezione il vice-ispettore generale. Voglio provare con lui a farmi dare la dispensa. Si dice che abbia buon cuore e tant’esperienza: è un giovane ma è qui da più di duecento anni! Voi però tenete botta… Studierò anche come parlare alla cocca… Te però, piuttosto che stare a leccarle la gnocca… cacciale bene delle belle inculate… Vedrai che a lei piacerà di più e… detto fra vecchi amici … per me e i miei colleghi fantasmi sarebbe uno spettacolo più movimentato»

«Grazie Carlo. La nostra felicità dipende da te che però mi sa che sei più maiale da morto che da vivo!»

                                              Il solito giro turistico nel suo culo

Per noi neo-morosi dormire assieme alla luce della notte, pur con al cuarcén sempre stra i marón, cambiò il succo della nostra vacanza: io ero diventato una persona amabile che aveva smussato ogni spigolosità del carattere. La cocca s’er’anche messa a studiare diligentemente. Tanto che quel venerdì, ch’eravamo andati in branda subito dopo cena, oltre a un’iniziale vampata di passione, conclusasi con un giro turistico nel suo culo, mi sentii dire:

«Per stasera ne ho abbastanza… bona!… Voglio studiare e finire gli esercizi della settimana. Con tutto il casotto di questi giorni non ho fatto un cazzo» e si girò col suo libro di geografia dandomi le spalle.

“Fan culo te, la Nuova Zelanda, Malta e il Dodecaneso!” e un po’ rassegnato presi a menarmi l’oca che non ero riuscito a sfogare nel pomposo boffice del fondo schiena.

«Mo sócc’mel Cecc’, fai un tananaglio con quella pugnetta che scossa tutto il letto. Non riesco micca a concentrarmi sul Mar Egeo con tutto quel malippo… dâi mò vieni qui che ti finisco io con la bocca».

Era proprio una ragazola piena di buon senso!

Guarda mò in che bella famiglia sei capitato

Il giorno dopo al Bagno Ricò Monica volle presentarmi gli amici di quella sua vacanza Più o meno suoi coetanei. Tutti cinnazzi che mi guardavano come un vecchio intruso che gli avrebbe portato via la loro Biancaneve.

«Lui è Berto il mio moroso che mi è venuto a trovare. Starà qui fino a fine mese»

«Allora tu non ci sei per la finale di biliardino?» chiese un piccolino sì e no di cinque-sei anni.

Monica, con spirito materno, lo prese in braccio per rassicurarlo «Non solo giocherò anch’io, ma facciamo un ballottino e infiliamo anche lui nella squadra del Bagno. Lui è bravissimo. Un campione»

«Dai… dai… dai, Berto sei tutti noi!» se ne andarono entusiasti cantando.

Anche la Norma, era venuta a casa: aveva chiesto scusa, anche piangendo, a mia mamma e a sua figlia. Questa aveva un po’ intignato ma poi si erano abbracciate. Con me la Vecchia era un bijou e a tutti raccontava di mettere già in conto il matrimonio di sua figlia, «che non è incinta – teneva a sottolineare – con quel bravo ragazzo che vedete sempre con lei. Mò si vogliono un bene!»

Unica cosa che non aveva voluto sentire, era di smettere di chiudersi nella cabina ventitré con al Capitani. Per amicizia le feci capire che qualcuno se n’era già intagliato, ma lei con malinconica mestizia:

«Cosa credi che Gisto, mio marito, adesso sia in ufficio a lavorare? Se c’è, ha sotto alla scrivania la Marzia, la segretaria, che lo sbocchina. Io li ho presi in castagna due volte, poi ho smesso di passare dalla ditta. Se invece ha deciso di farmi un dispetto, stanotte si porta nel nostro letto la Sonia, moglie dell’avvocato che sta in faccia a noi e che è sempre a Roma per la politica. Guarda mò in che bella famiglia sei capitato…» e scoppiò in una risata un po’ tirata.

Il commendator Egisto Martinelli commerciante di auto usate

Egisto Martinelli, commerciante di automobili usate, nel caffè sotto casa è conosciuto come Il Commendatore ma anche il “Filantropo”. Commendatore lo è perché commendatore l’ha nominato un’ordinanza del presidente Einaudi. La filantropia invece è dovuta al fatto che spesso si fa vedere in compagnia di qualche donzella la cui bellezza il più delle volte lascia a desiderare. E che ogni volta presenta agli amici con la stessa formula: «Questa meravigliosa creatura la vedrete spesso con me finché non saranno passati questi duri momenti» Gisto è tutto lavoro e bar. Ha un gradevole aspetto e una simpatica chiacchiera. È sufficientemente elegante e ha qualche anno meno, non tanti, di sua moglie Norma. Il motto che vi dirà se gli chiedete il biglietto da visita è: «Importante è che abbia la figa e che con gioia la dia »

Verso il mezzogiorno del sabato il Commendatore Egisto Martinelli arrivò con la sua Alfa Romeo rossa e qualche regalo: un costume da bagno ultima moda, il bikini, per sua figlia e un paio di orecchini per sua moglie.

«Sei partito presto stamattina?»

«No, circa un’ora e mezzo fa…»

«mo sóccia, papà, hai volato!»

«Quando si ha il mezzo…»

In realtà – fonte Carlo-Carlo – era partito mezz’ora prima dal Hotel Adriatico di Riccione dove aveva lasciato ad aspettarlo Consuelo, una ballerina brasiliana che faceva lo strip all’Esedra.

Tanto che mise subito le mani avanti:

«Io però, verso le cinque debbo essere a Bologna. C’è uno che ha da vendere una partita di camioncini. Starò con voi per il pranzo ma subito dopo debbo filare. Mi dispiace ma non posso mica cacciar via qualche centinaia di migliaia di lire»

«Per carità – si raccomandò la Norma – che dei baiocchi ne abbiamo sempre tanto bisogno!»

Gisto si mise a tavola felice e contento che tutti avevano bevuto la sua bubbola

Dov’è questo moroso?

«Allora Norma, in dov’è il moroso che mi hai detto al telefono?» disse facendo il cenachi.

«È qui… È Berto»

«Bän, mo allora è fatta… Non abbiamo neanche bisogno di presentazioni… Ci conosciamo da una vita. Benissimo… Sono proprio contento!… Mettiamoci ben a tavola. Ho una sghissa!»

Ecco, adesso ero ufficialmente il moroso della Monica Martinelli.

Su la sottana e giù i bragoni

Venni poi a sapere che la Norma gli aveva già detto che noi avevamo l’intenzione di dormire assieme da subito. E lui, dimostrando grande apertura di vedute: «Meglio comodi e protetti in casa piuttosto che dietro una zada come facemmo noi due… – l’invisibile testimone in camuffa racconta che a quel ricordo, il Gisto, aveva fatto una carezza alla moglie che aveva reagito stringendosi a lui. Ciò era avvenuto nella loro stanza e giocoforza: Só la stanèla, żå i bragónn come canta l’ilare menestrello.

Il Gisto, coerente con il proprio motto e stile di vita, non si era certo fatto pregare. Aveva cucciato la sposa contro il comò e si era messo ad aiutarla a denudare il corpo. Impresa non facile, per lei, far saltar fuori da un costume da spiaggia elasticizzato e in un pezzo unico le tanto apprezzate rigogliose poppe. Ma quando c’è la passione, la lontananza e il ricordo di quella trombata di quasi vent’anni prima che aveva originato il loro matrimonio e la nascita di Monica, non ci si poteva certo trattenere.

«Nûda t î sänper na gran gnòca anc adès a quèṡi zincuant ân[37]» le aveva sussurrato piluccandole un orecchio mentre le dita annaspavano alla ricerca del grilletto che lui sapeva bene che solo a sfiorarglielo la faceva sbiellare.

«Oh, Gisto… Gisto che spénnta! … lascia almeno che mi svolti nel letto»

«An ò brîṡa tânnp… An ò brîṡa tânnp… Avérra äl còs ch’al fän qué[38] e si era messo d’impegno a imbudellarla: una volta, ma era sblisgato fuori. Alla seconda, lei aveva messo in opera tecniche di cui andava fiera ed era riuscita ad imprigionare l’oca, più o meno bazocca, con una decisa striccata della bernarda. Ne era saltato fuori una sveltina assai intensa anche se priva di quel dolce cicaleccio che spesso fa da sottofondo alle esuberanze degli amanti. Lui si era dimostrato amante attento e rispettoso e aveva concluso la sua galoppata succhiandole come un forsennato i capezzoli, mentre le sbrodolava fra le cosce.

ESGF, Ectoplasma di Supporto ai Giovani e alle Famiglie

Prima di procedere con il racconto è bene sapere che il Carlo-Carlo nella sua funzione di ESGF, Ectoplasma di Supporto ai Giovani e alle Famiglie, ha la discrezionalità di regalare qualche omaggio promozionale fra cui i “raggi di sole”. Proprio così: strisce di luce che a sua discrezione, vanno ad illuminare zone dell’ambiente o delle persone. Ma conoscendo i suoi intenti lubrici sicuramente quei raggi illuminano solo le parti sensuali del corpo della femmina presente nella scena.

L‘urlo di Norma

Comunque: La stanza tenuta in penombra per conservarne la frescura della notte, lasciava entrare un unico raggio di sole che si intrufolava da un varco nella tenda del balcone. E guarda caso quel raggio andava a cadere sul ventre della donna aggiungendo calore a quello generato dal ritmico dentro-fuori del Gisto. Fu proprio quell’aggiunta di calore che portò Norma a un rapido orgasmo che lei, golosa, tenne tutto per sé, esplodendo poi dopo pochi minuti in un secondo acme. Che comunicò al mondo intero con un urlo che nulla aveva a che vedere con le normali esplosioni di gioia del piacere. Un urlo vero e proprio che, noi, io, mia madre e Monica, ancora a tavola a gustarci un secondo giro del dessert, ci mettemmo in apprensione: “stanno litigando?”… “Si picchiano?” Provvide Monica ad abbassare la tensione: «Chiavano… Fanno sempre così»

I due poi da persone adulte avevano ripreso ad interessarsi ai problemi della figliuola – «Tè, piuttosto… – aveva consigliato Gisto asciugando la cappella nella tenda del balcone – alla nostra cinna aprile bene gli occhi e va a comprare subito un po’ di goldoni…»

«Goldoni? – lei con aria schifata – Don Alfonso dice sempre nelle prediche che adoperarli – intanto era riuscita a rimettere nel costume anche la seconda tetta – si va incontro alla scomunica…»

«Che vada a farsi dare nel culo anche lui… Se ci salta fuori un pinino chi lo culla poi? La sua perpetua? Dai, dai… sgaggiati ad andare in farmacia che loro qui, si vede da lontano che hanno un morbino indosso che non durano micca molto a fermarsi ai bacini» uscì dalla stanza e bello come il sole salutò tutti e se ne andò.

Una sventolatina odorosa e si fece vivo Carlo-Carlo, che mi raccontò per filo e per segno la trombata dei coniugi Martinelli «Ero lì per servizio micca per mio sfizio – tenne a giustificare la sua presenza sulla scena del trastullo – Così, mi son detto, faccio gli auguri a chi ragâz . Un tempo mi sarei fatto anche tre o quattro scalfetti. Ah, cosa si perde ad essere morti !»

Da adesso tu puoi chiavare la Monica Martinelli

«Mo sócc’mel se mi fate lavorare! Ho parlato col vice ispettore generale che era a conoscenza di tutti i ciappini che tira su la Norma e di quelli che va a cercare suo marito.. stra tutte le manchevolezze dei coniugi, la persita del coperchino della figlia non è molto importante per la valutazione generale di questa famiglia. Madre e figlia sono delle brave parrocchiane che non saltano troppe messe durante l’anno e il commendator Egisto non lesina l’obolo quando il parroco glielo chiede. “Pur se un caso complesso ma per queste sante ragioni viene concessa la dispensa richiesta”. Guarda mò qui è proprio scritto così e anche firmato. Caro il mio Berto da adesso tu puoi chiavare la Monica Martinelli. Sei contento? È meglio però che tu vada a far rifornimento di Goldoni perché le ragazelle così giovani si impregnano solo a guardarle. Hai capito? E non fare il coglione»

Vedesti mai che bell’oca che ha

La Cocca volle poi andare alla gelateria. Dove mi aveva presentato alle amiche come “il mio fidanzato”.

Con la Gloria, l’amica del cuore, si era confidata: «Vedesti che bell’oca che ha! Mi sa che appena le due Vecchie sono fuori di casa gliela do del tutto… – e orgogliosamente – Il buchetto dietro me l’ha già perlustrato per tutta la settimana. Una goduria! Non credevo che fosse uno sguazzino così»

Con una cert’aria di superiorità la Gloria l’aveva stoppata «Io a Philipp non gliel’ho ancora dato. Il culo. Lo tengo per la luna di miele – poi, a secco – In bocca gliel’hai già preso?»

Vuoi? Gliel’ho succhiato prima ancora di fargli una pugnetta: dio, che getto! Per poco non soffocavo. Però ho mandato giù tutto… Dopo mi sono pentita… Mi è venuto in mente di aver letto che la Jasmine si fa sborrare sulle tette e se lo spalma perché sembra che le rassodi»

La Gloria dopo una smorfia di disaccordo continuò l’interrogatorio’ «Ma lui… te la lecca almeno

«Ói! E anche lì… guarda… è d’un bravo… e mi scatena certi scramlizzi che mi fanno sverslare. Non avertene a male, ma è molto meglio di come hai fatto tu le volte che ci abbiamo provato»

La Gloria invece se ne ebbe male e se ne andò ingrugnita senza salutare.

Gnocca mia, stasera finalmente si cucca!

Tornammo a casa verso le sette e le Vecchie avevano deciso di darsi alla pazza gioia. Almeno così sembrava dal biglietto che avevano lasciato sul tavolo: “Ragazzi, il capitano Cavicchi, ci ha invitato tutte e due a un ricevimento dell’aereonautica al Grand Hotel di Rimini. Non possiamo rifiutare. Staremo fuori fino a tarda notte. Per mangiare la signora Luciana di Żadîna Piè vi darà tutte le piade che volete. Paghiamo poi noi domani. Siamo già d’accordo”

Era la serata giusta!

La Cocca fece un verso di gioia, anche un po’ volgare: «Figa mia fatti capanna – e per lo sgarbo di Gloria che non aveva digerito – Gloria… prrr!… te e la tua lingua scarsa e di merda!»

«Cos’è sta storia della lingua della Gloria?»

«Poi un giorno, quando avremo più confidenza te la racconto… Adesso ho da fare… – ma si bloccò e, guardandomi con un velo d’ansia negli occhi… – L’hai poi giurato anche a mio padre?»

«No, ma non vale più… Anch’io ho qualcosa da mettere a posto»

Era un’estate molto calda e nelle ore del tramonto quella palazzina appena costruita con materiali di scarsa qualità era un forno. Io spurgavo sudore da ogni poro ma forse non era tutta opera dell’agosto.

Avevo il permesso di Carlo-Carlo, l’entusiasmo della Cocca, nessuno fra le balle… E allora:

“Monica puoi dire addio al tuo Coperchino!”

Mi cacciai sotto la doccia e mi sgurai a modo soprattutto il cazzo e la cappella.

Venni fuori da quel cesso nudo nado con un’oca dritta e dura ch’era uno spettacolo.

Rimaneva il problema dei Goldoni, perché adesso rivestirmi e andare alla farmacia del paese sarebbe stata una vigliaccata alla Cocca.

Mi grattavo la testa, quella coi capelli, ma non mi veniva alcuna idea furba. Ci pensò Carlo-Carlo dimostrandosi ancora una volta un prezioso amico: «Nel terzo cassetto del comò nella stanza di Norma ce n’è una scatola da cinquanta pezzi» Andai e feci il ciuffo.

Tutto filava per il verso giusto: le Vecchie in bisboccia, la morosa in calda, l’uccello duro, il preservativo a portata di mano. Non mancava proprio nulla.

Stavo per lasciarmi alle spalle un lungo periodo di grigiore tutto banca, casa e pugnette. In un’esplosione di gioia mi afferrai l’uccello con una mano e feci per montare a balzi al piano superiore gridando «Còca, a sån qué. Żó äl brèg[39]»

Odoroso venticello alla rosa e Carlo-Carlo che bravava: «dì sù non credi che con una cinna di quell’età vada usato un atteggiamento diverso da i saldi che sfrutti in via San Marcellino? – mi bloccai – Che ne so… un gesto di romanticismo… In fondo, anche se le hai già rotto il culo, è una ragazza di buoni sentimenti, sempre dietro a leggere poesie e romanzi d’amore…»

Mi ritrovai lì ai piedi di quella scala che non sapevo più come comportarmi.

Mi grattai la testa, quella con i capelli, e mollai quella del cazzo.

Aprii il frigo, c’era ancora mezza bottiglia di quell’albana dolce con cui avevamo brindato al nostro fidanzamento. Nella vetrina c’erano alcuni bicchieri a calice. Li presi e mi presentai a Monica nudo ma con stile e raffinatezza.

Mo sócc’mel Alberto, è la più bella cosa che potevi dirmi

«Addosso ho solo due gocce di Chanèl n.5, come fa… »

«Jasmine» provai ad anticiparla.

«Ma nooo… Marylin Monroe» cominciai subito con una figura di merda.

Era seduta sulla sponda del letto con le lunghe gambe accavallate. Il seno erto e i capezzoli che mi guardavano vogliosi. Sulle labbra un velo di rossetto. Quando fui sulla porta si alzò e l’inutile accappatoio scivolò a terrà.

«Mo Dio bòno, se sei figa!» mi scappò detto in modenese. Lingua che non mi appartiene ma che in quel momento calzava a pennello. Venne verso di me aggiustandosi i capelli ancora leggermente umidi. Il sorriso era appena accennato.

Era proprio un bisù!!

A quella scena l’uccello provò di irrigidirsi ancora di più e oltre. Con una spinta tale che la cappella pareva volersi separare dal prepuzio per entrare in orbita e girare all’infinito attorno a quella ragazzina che mi stupiva e ubriacava con perfida sensualità. E che, peccatrice impenitente, si sbizzarriva a sbattermela sotto al naso ad ogni occasione.

«Monica – tanto per far scena, con mezzo bicchiere d’albana in mano dissi in tono solenne – vuoi essere mia!» Nel film che avevo visto da poco, lui diceva anche per sempre ma non me la sentii di spingermi così tanto in avanti.

«mo sócc’mel Alberto è la più bella cosa che potevi dirmi» mi si strinse contro più che poté.

«Non avevo ancora sentito le tue tette così dure»

«Se devono fare il paio con il tuo mattarello»

Ripetei la formula

«Quando vuoi lo sarò?» e afferrò il billo tirandomi verso il letto

«Un attimo e sarò tutto tuo» Mollò il cazzo e brindammo alla liberazione dal coperchino.

Non m’era ancora capitato di infilarmi un preservativo. Avevo sempre lasciato fare alle professioniste di San Marcellino. Lì lo feci voltandole per rispetto le spalle. Un’inesperienza che mi fece perdere un po’ di tempo.

«Åuf!», l‘espressione della sua impazienza.

Quando mi voltai mi guardai l’uccello. Erto, possente nel suo vigore, ma grottescamente plasticato.

«Mo nå[40]… che volevo infilartelo io!»

Lo cavai così lei, poté srotolargli sopra e attorno quel cerchietto di gomma che teneva stra le pagine del quaderno.

Mamma le aveva detto tutto e «… è da ieri che faccio prove col preservativo»

«Con che uṡèl?»

«Malfidato! con la candela dell’altarino a Sant’Antonio che è in giardino»

Billo e parpaglia

«Come vuoi fare La Prima?»

«Quante me ne spettano»

«Quello lo decide il nostro Carlo-Carlo»

«Chi mé? » sentii ronzare sopra di me

«Il nostro bell’uccello Carlo-Carlo» tanto per non equivocare. Anche se non mi piaceva per niente dire che la mia oca era diventata nostra

Le accarezzavo le tette. Di tanto in tanto colpi di lingua ai capezzoli,

«Classica o dal di dietro?»

«Voglio guardarti negli occhi… il mio schiccione!» e agguantò il cazzo per sfregarselo con decisione stra le labbra della bafiona. Il pelo era lucido e umido, intriso dalle goccioline che di tanto in tanto la sua fessura stillava.

Seduto sul letto la trassi a me fin tanto che le sue basse labbra si appoggiarono al mio ghigno. Le diedi una mano a tirare su una coscia e a impuntarselo. Lasciai a lei la decisione di quando e come accoglierlo. Iniziò a spingere con prudenza poi, forse perché stanca di rimandare, con uno scatto deciso e un grugnito se lo cacciò tutto dentro.

Dalla gnocca violata uscì un bagnolo segnato dal sangue e la Cocca si strinse forte a me ben attenta che non uscisse quello che adesso era anche il suo uccello. Come ebbe poi lei stessa a ribadire.

Si sdraiò. Era agitata e gnolava. Non capivo se era un lamento per il dolore che fa lo stupaglio nel saltare o il morbino per il gudiolo che tardava a venire.

La classica posizione chiarì tutti i dubbi. Ogni smergolo della ragazza era solo un ode al piacere che sublimava il dolore dell’iniziazione. L uṡèl Cârlo-Cârlo centimetro dopo centimetro prese possesso del bramato anfratto.

Io quando sentii le sue agili gambe congiungersi al di sopra delle mie chiappe che mi cingevano con forza, lasciai libera la sborra di colmare il peduncolo a lei riservato nel goldne. Monica mi raggiunse nell’orgasmo urlando incitazioni oscene e allo stesso tempo osannando Dio e la Maria santissima.

Sudati, sfatti ma disperatamente stretti una all’altro!

Avevamo il fiato grosso ma pieni di gioia e ancora un mucchio di svarzura. Tanto che appena lei azzardò un complimento al bravo cazzo, questi int un spéll[41] si mise sull’attenti.

«Dai Cocca, che ti do un altro cuccio»

Mi venne lo schiribizzo di prenderla dal di dietro.

Un omaggio a Luciana che forse, dato gli avvenimenti, non avrei più rivisto. Ma che non accennava a farsi dimenticare. Sia per la prolungata spagnola sia per la prima pecorina della mia carriera ed ciavadåur.

Cambiai goldone che lei volle conservare per ricordo: come una reliquia stra i fogli del suo intimo quaderno.

La prugna della Celèste

Ci sono panorami scolpiti nell’immaginario della nostra mente che si riproducono ogni qualvolta analoghe situazioni li richiamano. E questo poteva essere l’imberbe prugna della Celeste, la tredicenne, mia coetanea alquanto trasgressiva che per cinquanta lire, me l’aveva fatta vedere per la prima volta. «Solo dal di dietro. Se no dal davanti vedi che arrossisco e non ho piacere» E che era rimasto un vivido ricordo foriero di lascivi pensieri e melanconiche pugnette.

La Celeste però a me non volle darla, ne allora ne poi:

«Sei ancora troppo cinno»…

Seppi poi che più o meno un anno dopo la dava ad un tenente delle truppe USA di occupazione. Uno di quelli che gestivano sigarette e cioccolato da distribuire alla popolazione. E la Celeste aveva iniziato ben presto a fumare Lucky Strike.

… la PATACCA della Celeste si materializzò innanzi ai miei occhi un attimo dopo aver abbozzato il mio desiderio. Così appena la Monica si mise in posizione, in me, inevitabile, scattò il confronto che non poté che essere di gran lunga favorevole alla mia amata.

Il fascino che subivo dalla retro visione della pippa mi portò a soddisfare l’uccello in due o tre cucci, senza curarmi delle esigenze e degli appetiti di Monica che, un po’ in imbarazzo per il pudore, chiese un ditalino consolatorio. Me la cavai con una leccata riparatrice che coinvolse anche tutto Il bofice.

«Mi sa che la notte sia cominciata bene» disse togliendo il preservativo dall’uccello e appropriandosi del prezioso contenuto che spalmò con cura sulle tette. Come Jasmine docet.

Un affettuoso bacio e si addormentò di pacca.

Forza mamma!

Erano solo le nove della sera. Il rito si era consumato nella stanza di mia madre, l’unica ad avere un comodo letto matrimoniale. Se fosse tornata avrebbe capito e non avrebbe certo fatto proteste. In fondo ci teneva anche lei che il suo ragazzo trombasse.

Non avevo sonno. Sul comodino, Gli Indifferenti di Moravia. Lo avevo aperto al segnalibro che aveva messo mamma e avevo cominciato a leggere: era tutto un cornino e alcune guzzate intrigate.

Lasciato il libro mi misi a pensare a mamma. Era una bella donna. Desiderabile. Sempre con una sua generosa allegria. L’immaginai quella sera stessa al Hotel Giamaica, dove si ballava anche. Volteggiava fra le braccia di un aviere un buon po’ più giovane di lei. Poi lui le offre un Cinzano, forse due. Brindano. Parlano sempre più allegramente. Non è un mistero che l’Hotel Giamaica abbia sempre camere libere. E allora? Forza mamma!

Carlo–Carlo, che aveva il dono di poter essere in più posti contemporaneamente mi confermò poi che le cose più o meno erano andate così.

Alla parola “inculata” l’oca bazzotta divenne un macigno

Una fastidiosa ventata mi gelò e mi distolse da quell’ipotesi fantasiosa. Guardai la finestra. Era chiusa. Non cera scampo: Carlo-Carlo era in zona e defati:

«Bella riconoscenza! Proprio stasera che avevo invitato tre amici per fargli vedere la vostra inculata: che è sempre un gran bello spettacolo e voi?… Voi vi mettete a dormire…! Con tutto quello che ho fatto per…»

Il ghigno, che si era inbazocchito, alla parola inculata divenne una masaggna

E se cominciassimo con una chiavatina

Non potevo certo tirarmi indietro e mi misi a scossare la schiccia che si svegliasse

«Monica… Monica…»

«Csa i êl?[42]»

«Carlo-Carlo vuole che te lo metta nel culo»

Per lei Carlo-Carlo è solo il nome del mio cazzo ed era anche convinta che lui, sto cazzo, capisse i nostri discorsi e che sapesse anche come farsi capire da noi.

Quella sera, poi l’ultima cosa che avrebbe voluto era di dare un dispiacere a Carlo-Carlo: il suo primo uccello.

«Ah, se è per farlo felice… Con due cipollate vado già in calda… Té, magari, dai bene un piluccotto al povero culo, giusto per il sacrificio che gli domandiamo – Era ancora assonnata… sbadacciò. e ci ripensò – E se tacassimo con na ciavadéina? Giusto per svegliarmi del tutto»

Ancora una volta sentii avvolgermi da una specie di uragano, con un’intensità tale che ragionandoci sopra stimai che con Carlo-Carlo ci fossero ben più di tre fantasmi e tutti in grande eccitazione.

«Questa sì che è gratitudine! Prima una bella guzzata che consiglio in sponda con un finale nel culo! Credo che i ragazzi qui, non dimenticheranno mai più una serata così. Debbo proprio ringraziarti a nome di tutti. Siamo in trentatre!

La trapanatura

Intanto la Cocca, di sua iniziativa si era posizionata: culo per aria, gnocca in primo piano e cosce larghe. I piedi, oltre la sponda del letto.

«Hai avuto suggerimenti?» domandai nell’impuntarglielo.

«Boh? Mi è parso di sentire la voce del tuo pistolino che diceva qualcosa»

« Pistolino il mio? Carlo-Carlo è un cazzo!»

Un po’ me n’ebbi a male così con un’unica fondata glielo sgnaccai tutto dentro. Senza preliminari di cortesia. E qui mi accorsi d’avere dimenticato il preservativo.

Ci saltò, così, fuori una trombata molto in uraccia che durò tanto e che diede un gran sgugiolo solo alla Cocca, che si lasciò completamente andare e venne a gusto ben due volte, osannando Carlo–Carlo, bel pistolino.

A me invece si era incordito il bagaglio e non ero venuto.

La Monica, ragazza sveglia, non ci mise molto a capire il problema e reagì da persona generosa e allo stesso tempo schizzinosa. Generosa nell’offrirsi a farmi venire subito con uno dei suoi bocchini alla Jasmine. Schizzinosa mettendo in chiaro:

«Sta sicuro, però, che dopo che l’hai girato nel culo, io in bocca non te lo prendo più.»

Non aveva tutti i torti!

Sapendo però che avevamo spettatori che non aspettavano altro che l’inculata… l’inculata gli demmo.

La Cocca mi mise a disposizione la pera sul ciglio del letto. Una bell’idea per farmi trovare il buco alla stessa altezza della cappella – l’ideale per tutti quelli che erano lì per vedere! Ma questo lei micca poteva saperlo! – … e iniziai la trapanatura.

Una prestazione fatta con grande eleganza

Sarà perché il culo ha più consistenza o perché senza goldone e senza la preoccupazione d’impregnatura, né saltò fuori un’inculata lunga, pacata e serena che si concluse con una spettacolare sborratura.

La tromba d’aria che sentii attorno a me era dovuta agli amici di Carlo-Carlo che applaudivano entusiasti per l’eleganza della prestazione.


[1] Settimo Cielo era un dancing su in Montagnola

[2] Grand Hotel Nel giugno 1946 viene pubblicato il primo numero di Grand Hotel, al prezzo di 12 lire per sedici pagine: il successo è molto grande. Sono storie d’amore disegnate a fumetti, a prezzo basso, destinato al pubblico femminile, tant’è vero che sovente fu definito ingloriosamente “un giornale per le cameriere”.

[3] Les Feuilles mortes Il brano è stato composto da Joseph Kosma su versi di Jacques Prévert, resa celebre da Yves Montand. Colonna sonora del film Mentre Parigi dorme del 1946

[4] Cento Trecento / via Cento Trecento

[5] In duv î? / Dove sei?

[6]Mo mé nå / Ma io no

[7] Cooperativa La Saragozza / Ben nota balla di facchini

[8] vughi-bughi/ che sarebbe poi il boogie-woogie

[9] Birreria Bologna / Meta di biasanòt. Era all’incrocio Ugo Bassi-p.zza Malpighi-San Felice-Marconi. Non c’è più

[10] Magnum! / in B. imperativo presente del verbo magnèr / mangia

[11] Notturno dall’Italia / storica trasmissione radio della RAI

[12] Pensione Fusari / nota pensione a ore del Centro storico, molto attiva in quegli anni.

[13] SISAL fondata nel 1946. Sportitalia società a responsabilità limitata è tuttora attiva nel settore delle lotterie e pronostici e del gioco d’azzardo

[14] Bän mo csa fèt? / ma cosa fai?

[15] dare a Gerri, leggi: dare al rottamaio

[16] l’êra åura! / era ora!

[17] Cs in dit? / Cosa ne dici?

[18] Necchi / marca di un produttore di macchine da cucire uso famiglia

[19] Quello di Lisa Biondi è il mistero glorioso per eccellenza della cucina italiana. Chi abbia i natali nel dopoguerra non può non aver sentito parlare di questa graziosa signora, l’ancella di tutte le cucine. Dagli anni del Boom dispensa consigli e ricette alle casalinghe italiane. Lisa è ovunque, chiacchiera alla radio, scrive sulle più note riviste femminili dell’epoca. Le sue ricette appaiono in librettini che sono dati in regalo a chi acquista la margarina Gradina, i dadi Knorr, l’olio Bertolli, la maionese Calvè e poi, negli anni successivi, Quattro salti in padella, i sofficini Findus, That’s Amore, sempre della Findus, il Friol, la pentola a pressione Lagostina o i piccoli elettrodomestici della Braun. Insomma Lisa è la migliore amica dell’industria alimentare. E’ lei che ci incoraggia a fare il salto ad abbandonare gli ingredienti tradizionali per affidarci fiduciose nelle braccia dei nuovi prodotti industriali. Nessuno sa che faccia abbia questa signora. Non ci sono suoi ritratti se non disegnini stilizzati di una bella bionda, capelli immancabilmente cotonati, una vaga somiglianza con Grace Kelly, che sorride invitante dalle copertine dei suoi libricini di ricette.

[20] il riferimento è a Greta Garbo

[21]èt détt quèl? / Hai detto qualcosa?

[22] Grazie dei fior / cavallo di battaglia di Nilla Pizzi. Vinse il festival di Sanremo nel 1951

[23] millecento: FIAT Millecento / fortunata serie di autovetture della casa torinese

[24] Mo s l é blén! / Ma com’è carino!

[25] pîz par té / peggio per te

[26] Fà pûr l esen! / Fai pure l’asino

[27] Mo st î bela ! / Come sei bella!

[28] E té péccia! / E insisti !

[29] Vût magnèrla tótta? / vuoi mangiarla tutta?

[30] Bän mo csa dît? / Ma cosa dici?

[31] Fausto Coppi / il campionissimo del ciclismo italiano 1919 – 1960

[32] Yes Sir / Inglesismo per indicare la fellatio (al buchén)

[33] da Gli indifferenti di Alberto Moravia

[34] lîvet! / alzati! / dal verbo B. livères, imperativo presente

[35] Gino Girolimoni (1889–1961) fotografo accusato dello stupro di sette bambine e l’omicidio di cinque di loro fu additato come mostro dalla stampa. Successivamente scagionato, ne ebbe comunque la vita sconvolta. La sua vicenda di errore giudiziario rappresenta un caso emblematico degli effetti perversi sulla pubblica opinione di una campagna giornalistica pilotata e aprioristicamente accusatoria.

[36] Tex Willer è un personaggio immaginario protagonista della serie a fumetto Tex. Scritto e creato da Giovanni Luigi Bonelli e dal disegnatore Aurelio Galleppini nel 1948. Il personaggio è uno dei tanti giustizieri solitari.

[37]Nûda t î sänper na gran gnòca anc adès a quèṡi zincuant ân / Nuda sei sempre una gran gnocca anche adesso a quasi cinquant’anni

[38] «An ò brîṡa tânnp…… Avérra äl còs ch’al fän qué / Non ho tempo Apri le cosce che lo facciamo qui

[39] Còca, a sån qué. Żó äl brèg / Cocca sono qui. Giù le braghe.

[40] Mo nå / Ma no

[41] int un spéll / in un battibaleno

[42]Csa i êl? / Cosa c’è

GigitoPC informatica indirizzo: via Argentina Altobelli 28, 40133, Bologna (Solo su appuntamento) GigitoPC informatica indirizzo: via Argentina Altobelli 28, 40133, Bologna (Solo su appuntamento) Icona storia GigitoPC informatica telefono: 348.09.33.582 GigitoPC informatica telefono: 348.09.33.582 GigitoPC informatica whatsapp: 348.09.33.582 GigitoPC informatica whatsapp: 348.09.33.582 GigitoPC informatica email: info@informaticabologna.it GigitoPC informatica email: info@informaticabologna.it Icona freccia destra Gigitopc informatica Facebook Profilo social Facebook Gigitopc informatica Gigitopc informatica Twitter Profilo social Twitter Gigitopc informatica Gigitopc informatica Linkedin Profilo social Linkedin Gigitopc informatica Gigitopc informatica Pinterest Profilo social Pinterest Gigitopc informatica